Un racconto di Francesco Marchetti
Gino Pannunzio siede con poco decoro sulla ceramica del cesso; la schiena è appoggiata alla cassetta dello sciacquone, sporca come il resto del bagno. L’espressione del volto è ancora incerta, stupita, come nell’aver ricevuto una notizia brutta e sorprendente. Il colpo di pistola gli ha maciullato il lato destro del viso. Si stava masturbando, chi lo troverà non avrà dubbi a riguardo. Della mano sinistra, quella libera, è rimasto poco. Ai piedi di Gino un lago vermiglio di denso calore nel quale galleggia quel che resta di almeno due dita. Nel soggiorno, Antonino Pannunzio, dieci anni il novembre scorso, incastonato nel cuscino di broccato sta acciambellato con perfezione abbacinante in una poltrona dai braccioli unti; non porta calze e ha un pomeriggio davanti a sé. Guarda leoni marini alla tivù, compreso in pensieri altri, scollegati dalle immagini delle quali percepisce distrattamente un ronzio sordo, tenue, un rumore bianco appena soffiato. Ha una pistola tra le mani, scarica, ora. Per ora. Ha raccolto poco fa dal cassetto del padre il necessario per darsi la pace eterna. Prima gliene ha fatto dono e il profumo di polvere da sparo pizzica il sapore di Nazionali senza filtro nella stanza, piccolissima; ma l’assenza delle urla e dei movimenti scoordinati, maldestri, violenti di Gino, il mulinare della cinghia dalla parte della fibbia, rende ora quel piccolo antro un posto quasi raccomandabile. In un attimo la sua attenzione stanca è catturata dal gioco di luci che la tapparella colpita dal sole crea sul muro. Si sente un gatto. Le fessure della persiana, occhi senza pupilla, si moltiplicano e si
allungano sulla parete in sguardi e ghigni. Scruta da sinistra e dall’alto verso il basso la credenza, la lampada a stelo, alcune suppellettili delle quali non ricorda il nome, fino al tavolino di fronte alla televisione.
Sulla superficie di vetro una matita e fogli appallottolati. Antonino ha scritto qualche parola sul retro di un biglietto del bus e ne è sinceramente fiero:
m’hai rotto il cazzo
recita l’incipit dell’Haiku. Con la canna del ferro percorre sovrappensiero il filo delle labbra, mentre mormora un possibile finale, senza trascurare la forma. Trastulla con le dita una chiave d’ottone. Perde sangue dall’orecchio, il rinculo gliel’ha quasi strappato. I versi di una canzone che passano in radio, una voce remota nella stanza accanto, gli solleticano la bocca avanti e indietro, avanti e indietro, come il passaggio di un polpastrello; le parole gli camminano sui denti, poi le sputa via. Non conosce l’inglese e sa solo imitarne il suono, mugugna qualcosa cantilenando la musica. Ai piedi della poltrona sta Mario, il bastardino che l’estate scorsa si è portato a casa dalla “Colonia” sulla spiaggia, un edificio giallastro e diroccato nel quale ha passato qualche estate con i ragazzini del quartiere. Mario sta leccando gocce di sangue dal tappeto, ogni tanto si interrompe e osserva eventuali movimenti dall’alto. Ma Antonino non si muove, ancora. In controluce, nel soggiorno, il pulviscolo anima il silenzio di un ordinario pomeriggio d’agosto. Mario scorreggia e abbassa le orecchie, aspettando un ceffone che questa volta non arriva. La superficie del pavimento è irregolare. Sotto il tappeto affiorano bitorzoli, perché non ci sono piastrelle sul nudo cemento.
Bussano alla porta finalmente, le voci si aggrovigliano, Antonino ne registra la presenza, ma non si muove, non ha fretta, non si sente intimidito; temporeggia. Ci sono cose da decidere. Sullo schermo un leone marino tenta di accoppiarsi con un pinguino. Antonino si leva dal cuscino e si siede incuriosito. I colpi alla porta sono sempre più forti, le voci minacciose.
“Pannunzio! Carabinieri! Apri la porta!”
Il leone marino si appoggia con tutto il suo peso sul pinguino, con prepotenza. Le lacrime fioriscono nell’incavo degli occhi e rigano senza fretta le guance sporche del ragazzo.
“Non è giusto”, mormora a fior di labbra, senza udire la sua stessa voce.
“Apri! Che non succede nulla! Apri o apriamo noi mannaggiaccristo!”
“Non è giusto…”. La mano si muove a tentoni sulla poltrona prima, poi sul tavolino, mentre lo sguardo è incollato al televisore e il pianto prende consistenza.
Quasi bisbigli: “Chi è? Come si chiama?”.
“Antonino, stai a posto?! Apri la porta, avanti!”
Il leone marino punta la pinna posteriore nella sabbia e le zampe anteriori sul capo del pinguino, che affonda. Il pinguino tenta con tutte le sue forze di tenere almeno il becco fuori della rena succhiando l’aria.
La radio accesa trasmette le notizie sul traffico.
“Non è giusto…”, dice Antonino, singhiozzando. Il corpo di Gino scivola dal cesso e cade sul pavimento.
“Non è giusto”, ripete a voce alta e questa volta lo sentono anche da fuori.
“Ragazzo! Apri questa porta! Aprila!” arriva la prima spallata, sorda, un tonfo sul legno.
“Non è giusto” la sua voce di ragazzino si alza, il dolore e la rabbia la rendono stridula, mentre da fuori arrivano i calci alla porta. Raccoglie dalla scatola un paio di colpi, il tamburo estruso, la saliva gli si accuccia sul palato. Uno e poi l’altro proiettile e lo scatto secco, il silenzio gli si scioglie in gola. Il grilletto cricchia e schiocca a fine corsa. Guarda il leone marino, gli punta contro la canna della pistola. Spara. Spara ancora; deflagrazioni senza appello. Questa volta ha fatto attenzione al rinculo. Mario nasconde il muso sotto la poltrona, guaendo. Fuori dalla porta lo spavento si fa bestemmie.
“M’hai rotto il cazzo”, dice Antonino.
Per un attimo il tempo si arresta, nessun movimento, nessuno fiata. Il proiettile assassina il leone marino e lo schermo, disintegra entrambi in infinite rifrazioni. Il pinguino è salvo, Antonino ne è certo, è salvo per sempre. Ora gli cola il moccio dal naso. Le urla fragorose diventano frastuono. La pistola è scarica. Una spallata e un’altra e i cardini e il legno iniziano a cedere. Posa l’arma sul bracciolo, al rallentatore. Mario abbaia verso la porta. Uomini in divisa e vicini di casa irrompono nell’appartamento gridando, chiedendo.
Antonino permette alla stanchezza di abbracciarlo dolcemente. Qualcuno corre verso di lui, solleva di peso il suo corpo minuto e lo scuote bruscamente per le spalle. Le palpebre si desiderano, si uniscono in una carezza che diventa sonno. Hanno trovato Gino, il frastuono si paralizza nell’aria polverosa. Per un attimo Antonino ha l’impressione di librarsi in volo.
Lacrime scure traboccano ancora. Mi aveva scopato, mormora.
Mi aveva scopato. Ripete.
Mi aveva scopato, mi aveva.
Francesco Marchetti, 50 anni, novarese di origini meridionali. Lavoro come orientatore nella formazione professionale e nelle politiche attive del lavoro, ma è l’esperienza come psicomotricista che mi traghetta nell’età adulta. La trasposizione del mio vissuto nel setting in brevi shot sulla piattaforma splinder, costituisce la prima esperienza letteraria. Appassionato di teatro e musica, autore di testi di canzoni per progetti indipendenti, autore dei blog Dagli Appendini Alle Ante e Istanbulrockets su wordpress. Lettore scostante.