di Luca Testa. Nato in Lombardia, vive nel Ponente ligure, dove ambienta la sua cosmogonia. Laureato in filosofia, non ha mai trascurato la passione per la scrittura, sebbene di professione sia un imprenditore. La ricerca ininterrotta di uno stile narrativo, prosa e poesia al contempo, dopo anni è confluita nella Trilogia a Ponente (Tramontana a Ponente, Nubifragio a Ponente e Naufragio a Ponente) con l’epilogo Brutus, di cui proponiamo un estratto.
Nuoto nel mare aperto. Sono il silenzio. Sono la percezione di tutte le mie paure. È qualche tempo che soffro di amnesie. Alcuni ricordi scompaiono. Certe informazioni vengono inghiottite da un buco nero. A volte per incanto ricompaiono. Tornano anche parte dei ricordi mentre altri evaporano per sempre. Non so più nemmeno se sono il grande scrittore morente. Forse un minuscolo sognatore. Solo il sogno di un uomo ridicolo. Magari come autore non valgo un granché, però possiedo un cuore sproporzionato sebbene qualcuno tenti continuamente di strapparmelo. Proseguo diritto per la mia strada mentre il sole incassa un altro giorno. I vacanzieri rincorrono l’unico obbiettivo di stravaccarsi lungo gli arenili. Conduco le ultime bracciate verso riva e mi infilo direttamente le Hoka lì sul bagnasciuga. Ancora fradicio abbandono la spiaggia libera. Pare un cimitero vivente sotto il solleone. È tempo di vacanze anche se non si capisce più niente. Nel frattempo provo a tirare avanti come sempre. Campo di intuizioni e sopravvivo di barlumi. Scorci rubati alla poesia.
Quest’estate sono arrivati i ladri veri. Si sono mescolati alle moltitudini di scampati al Covid. Professionisti e ladruncoli di strada. Disperati e arrangiati, ma anche esperti scassinatori e borseggiatori. Fuorilegge fuori sede. Poi ci sono i tre tossici mezzo anchilosati. Stazionano a un tavolino all’aperto presso un bar centrale. Tutti i tavoli ormai sono all’esterno. La chiamano “post emergenza”. È meglio così. Viviamo tempi molto confusi. I tre invece hanno le idee molto chiare. Sballarsi, sgraffignare qua e là e sballarsi ancora. Hanno tentato di rubare ovunque. Lo credono anche i tutori dell’ordine ma non dispongono di prove. Solo indizi e supposizioni. Sono stremati pure loro dalla durezza di questi ultimi mesi. Ed ora l’estate poggia il suo carico di rogne. Il paese è allo sbando. Vacilla. Scoppia una rissa. Prima sul bagnasciuga. Un’altra in spiaggia libera. I motivi sono sempre futili. Aggravati da una febbre di follia, frenetica e incontrollabile. Non è quella dell’epidemia. Ora è dettata dalla sua presunta fuoriuscita. Un nuovo tafferuglio appena fuori dalla spiaggia libera, a ridosso del viale. Lì passeggiano i costumi, le pance, gli infradito e i passeggini appunto. Ci sono gli abusivi coi gel lavamani e turbini di mocciosi urlanti. Quest’anno gridano ancora di più. Rammentano gli strilli strazianti di animali condotti al macello. Ecco un altro parapiglia sul lungomare. Una zuffa di fronte ad una banca, per precedenze al bancomat. Una lungo la strada coi parcheggi blu a lisca di pesce, per priorità di posteggio. L’ennesima lite esplode all’ingresso di una pizzeria chiusa. Incrocio di sguardi furenti e troppo sole cocente alla testa. Sale la temperatura. Sempre più. Questa non la misura nessuno. Il rancore. La frustrazione, la rabbia, l’impotenza. La claustrofobia repressa. L’anidride carbonica del contro respiro delle mascherine indossate ai quaranta gradi all’ombra. Intanto il tossico capo, quello dagli occhi celesti, ingolla placidamente una Ceres in quell’ora che Hemingway chiamava “morte nel pomeriggio”. Gioca col suo cucciolo di cane e indossa un sorriso che dirti non saprei. Le pupille luccicanti dentro due fessure arrossate, la sua indole corrotta a riposarsi nel sorso amaro della birra. Cristo santissimo. Sembra felice. L’estasi di un santo. Forse sta architettando un colpo. Il regno balneare invece scalpita. Emana furore dalle narici e sbuffa. Deflagra ancora una colluttazione a un tavolino all’aperto. Tutti i tavoli sono all’esterno.
“È l’inizio della fine” mi dici.
Il tuo sguardo si perde oltre le nubi ghignanti di un cielo lombardo, ubriaco e purpureo. Coprono gli intagli remoti del Monte Rosa. Forse sei tu ad essere sbronzo.
“Ora che verrà agosto, la gente si ammazzerà per la strada” ti replico. Il mio di sguardo è triste e si perde lontano.
“Se mi lasceranno uscire da qui e mi daranno modo di venire, sarò lì con te. Starò al tuo fianco” mi rassicuri con voce calma. È roca. Carezzata da troppe sigarette.
“Lascia perdere” ti replico senza fronzoli. Il mio tono è piatto. Il timbro anche più rauco. Ancora più sigarette.
I nostri sguardi si smarriscono dentro cieli diversi. I pittori e i gabbiani sanno che nessun cielo è mai uguale. Nemmeno a se stesso.
“Sarebbe opportuno che tu non venissi proprio, Ric. Qui è un manicomio. Inutile provare a contrapporsi.” Ti scrivo.
Mangio delle olive nere. Ne divoro un intero vasetto. Il gatto l’ha rovesciato e tant’è. L’emicrania è andata evolvendosi. Arriva meno frequentemente e meno intensamente. Quando sento che sopraggiunge, valuto all’istante se posso evitare le solite dosi eccessive di ibuprofene. La nuova terapia per il mal di testa è pure frutto della quarantena, dell’emergenza. L’ho chiesta in prestito all’amico psichiatra. È stato molto generoso, come sua indole. Ci ha lavorato un paio di giorni. Ha consultato riviste specialistiche americane e poi me l’ha elargita. Al tempo delle riaperture gli ho offerto una cena. Un po’ poco. Me ne rendo conto. Il fatto che abbia ancora attacchi significa che funziona. “Se fossero spariti del tutto” mi dice “non sarebbe stata una cura ma un miracolo”. Nessuno di noi due crede ai miracoli. Io nemmeno in Dio. Lui non lo so. Non gliel’ho mai domandato. Mi propongo di farlo, prima o poi. Ho qui un libro da dargli. “In ogni cosa c’è stata bellezza” di Vilas. È un capolavoro. Mi trovavo in libreria e ho pensato di regalarglielo. Quando sono uscito però un dubbio mi ha assalito. Forse era stato proprio lui a suggerirmi di leggerlo. È pazzesco. Lo scoprirò quando scarterà il pacchetto, stasera o domani stesso.
Domani il tramonto arriverà un po’ prima. Le giornate cominciano ad accorciarsi anche se nessuno se ne accorge. Il mondo è intrappolato nella superficialità. L’uomo è incapace di alzare lo sguardo. Forse per questo in molti continuano a credere in Dio. Che forse è morto. Sepolto sotto la marmaglia che si ammassa nelle spiagge libere. Si addossano l’un l’altro infrangendo del tutto le regole, prima imposte duramente, poi gettate nel cesso. Quando la folla abbandona l’arenile rimane un tappeto di rifiuti indicibile. Dio probabilmente è occultato lì. Prima arrivano i piccioni. Non ci sono più mocciosi a prenderli a calci, incitati dai genitori. Poi giungono i gabbiani. Ripuliscono tutto. Dio è murato dentro i sottopassi, dove l’odore di piscio è talmente sgradevole, che ogni tanto qualcuno vomita improvvisamente senza tante cerimonie e senza nemmeno scrupoli per la mascherina che indossa. Ogni volta che ci transito resto esterrefatto. Possibile che l’effluvio pestilenziale non scateni squadre speciali di disinfestazione? Dove sono finite le messinscene carnascialesche dei tempi dell’emergenza? Allora il terrore imperava e si ostentava l’efficienza della macchina. Strade benedette di cloro e umanità carcerata dentro casa. Dio è sommerso in mare, al largo. Là continuano a riversarsi cadaveri di disperati. Se li contassimo sarebbero più dei morti pandemici. Dio viene evocato in un’altra liturgia, sospesa tra la propaganda e il folclore. La sua voce si spegne nel frastuono delle marmitte perforate di mille motorette. Le giornate intanto si riducono e le immagini si distorcono sotto cumuli di plexiglass. Sembra di stare di nuovo all’inizio della fine.
È una descrizione potente dell’intorno. Il caos. La fine di luglio è l’inizio di agosto. L’esistenza entra tra parentesi storte. Sgangherate.
Il sottopasso della stazione puzza di piscio. Il sottopasso alla marina puzza di piscio e di sudore. I bidoncini nei pressi dei ristoranti puzzano di pesce marcio e non dovrebbero invogliare nessuno ad entrare. I locali invece sono zeppi. Così stipati di avventori che il distanziamento è un ricordo sbiadito di un’epoca dimenticata. Rimossa, malmenata, presa a calci in culo e respinta in un limbo. Le imposizioni emergenziali sono chimera. La fanfara suona l’ipocrisia nazionale. L’uomo della strada è ancora più polemico, se possibile. Il turista ancora più intrattabile. Va tutto bene. È tutto sotto controllo. C’è gente che si mette le mani tra i capelli. Un signore, piovuto da chissà dove, durante il giorno ingolla molta birra e di notte dorme in spiaggia. Cadesse uno spillo dall’alto non toccherebbe il suolo da quanta umanità si sta ammassando sulla costa.
Nel frattempo la macaja ha occupato il cielo per giorni interi. La gente ne è uscita ancora più frastornata e intollerante. È diventata terribile. Dal canto mio insisto nell’essere il più grande scrittore morente sbattendomene se come narratore non valgo un granché. Il mio cuore è rimasto integro nonostante gli anni che passano, la pandemia e tutto il resto. Clacson impazziti al culmine del pomeriggio. La sera diventerà se stessa anche in mancanza di brezza ma sarà un processo lungo come un’agonia. Un torrido torrente di auto, di autobus, di motorette e di apecar s’incanala per le strade nell’ora di punta. Il ritorno dalle spiagge, quando la processione a piedi si allunga sulla via Fottenghi. Tommi, fermo ad una panchina, prova a mettere ordine nel suo caos. Tra le sue scartoffie. Glielo chiedo. Mi risponde che non ci riuscirà mai. Un uomo si porta una mano a mo’ di visiera sopra la fronte. Si ripara lo sguardo e scruta in fondo la strada. Potrebbe essere un turista. Le sue gambe sono leggermente arcuate. Quasi avesse trascorso l’intera esistenza a cavallo, o tutta la gioventù a rincorrere un pallone. È pieno di maschi del genere. Braghe corte e mocassini. Credo siano turisti. Paiono adulti ragazzini. Rimango perplesso. Le scarpe perlopiù sono consunte. Dentro il mio animo si compone l’idea di sciatteria. Ci sono molti che mi rammentano l’anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia. Dispongono di troppi orribili tatuaggi. Più che di pensieri. La ciccia straborda intorno. Il sudore cola loro addosso.
Sono ancora ben visibili strisce o frammenti di scotch risalenti all’epoca della quarantena forzata. Allora tutti i movimenti, gli spostamenti e gli stazionamenti erano vietati. Venivano sanzionati. Ad un certo punto l’alibi dell’emergenza ha addirittura riammesso i ricoveri coatti. La civiltà è retrocessa pericolosamente. Passeranno anni prima di riprenderci. Si trovano dunque ancora tracce di nastro sopra panchine, staccionate, pali, inferiate, vetrate. Nessuno le nota più. Le giostrine ed i giardinetti dell’infanzia erano tra i luoghi più tabù. Infagottati di nastro bianco e rosso. Lo scotch fissava le limitazioni che il nastro imponeva. Pazzesco. Materiali abusati quasi quanto le mascherine, i guanti usa e getta, i gel disinfettanti, l’alcol e l’amuchina. Studi non ufficiali tenteranno di smascherare gli speculatori. Verranno inghiottiti e digeriti da catene interminabili di paranoici in rete. Resteranno frammenti di poesie pubblicate postume sparsi nel cielo reso basso e soffocante dalla macaja. Il controsoffitto della claustrofobia da Covid.
In questo lembo di terra rosicchiata dal mare alla dirompenza delle montagne sono stati catapultati gli eroi borghesi di mille altre zone rosse. Anche dalle più impestate. Come se qua non ci fosse mai stato proibito di correre o di passeggiare, di nuotare o di canoare. Nemmeno ci si poteva recare a guardare il mare. I droni controllavano le coste. Era sin interdetto respirare la brezza, il toccasana universale dei polmoni. Ora che non ce n’è nemmeno un soffio e la macaja la comprime, quanta nostalgia. Adesso vigono altre regole. Come se qui per circolare non fossero mai occorse le autocertificazioni nelle loro mille cangianti versioni. Come se anche da noi non ci fossero stati i cani a portare a passeggio i padroni per il quartiere. Tuttora lungo i marciapiedi di via Fottenghi sono i quattro zampe a dominare. Gli schizzi delle loro urine mortificano il passeggio. Il puzzo di piscia sale nelle ore più calde e gareggia con il fetore dei rifiuti.
Una luna piena pellerossa traccia il confine tra la fine di luglio e l’inizio di agosto. Le mie emozioni tracimano. Come da quarantanove anni, ormai.
Ho nuotato così a lungo da dimenticare il colore del cielo. Nel cervello ho impresso solo il bisbigliare muto e iridescente del fondale. Ho scordato anche tutto il resto. Sono proiettato fuori dello spazio tempo. “Morente scrivi!” sento dentro. A stento giungo al bagnasciuga. Fatico nel rialzarmi e mi trascino fuori dall’acqua come un anfibio. Mi tremano le braccia. Non ho forza per affrontare il muro di corpi nudi che trovo davanti. Raccolgo lo zainetto e scappo via. “Morente scrivi, morente scrivi, morente scrivi”. Mi traballano anche le mani e non riesco a stringere la tazzina di caffè che la Vale tenta di porgermi. È l’intero corpo ad essere scosso. Una fatica di cui non getterò via niente. “Morente scrivi!”
L’umanità gronda lungo i carruggi infuocati e attraversa di sghimbescio aree di passaggio. Tutti urtano tutti. Nessuno chiede scusa a nessuno. Sto sorseggiando caffè di cicoria, una, due, tre tazze. La sera arriva senza brezza e all’istante è notte. La calura non degrada mentre batto sulla tastiera. La fronte s’imperla di goccioline e la sigaretta si spenge tra le dita. Tu chissà dove sei? Mi s’infradicia l’intero corpo. Si copre di brividi freddi intanto che sulla strada transitano le infernali motociclette domenicali. I mocciosi urlanti coprono persino il lontano ululato di un’ambulanza in transito sull’Aurelia. Sudo. Nudo sulla sedia. Non ho mai colato in questo modo. Quasi avessi una febbre terzana. Minuscoli cani, oltre ad imbrattare le rive di via Fottenghi con l’urina, latrano come mastodonti all’assalto. Tolgo gli occhiali perché mi scivolano dal naso. Mi alzo e m’infilo sotto la doccia gelata. Ritorno a scrivere fradicio di acqua gelida. Sono un selvaggio. “Scrivi morente”. Non c’è fine. Non c’è inizio. Non ci sarà resurrezione, nessuna redenzione, né remissione. La memoria guarda avanti e vede. Cristo santissimo. Preghiere mute. Bestemmie urlate. Angeli senz’ali. Gatti comodi nell’ombra. Delfini balzanti verso la Corsica. Cinghiali senza limiti. Gabbiani nel cielo che non cambia da giorni. L’aruspice lo osserva. I suoi occhi sono divenuti due fessure. Tace. Non si pronuncia. Forse il suo silenzio è sin troppo eloquente. Lampi fatui accendono l’entroterra. Il cielo non vuole piovere. La macaja toglie il respiro. Ottunde le menti. Non rilascerà mai l’acqua di cui apparentemente è gravida. È solo vapore. Stitichezza di pioggia. I fulmini un’illusione. Difatti l’aruspice nemmeno li vede. Livore sopra le montagne. Sterilità. Sorseggio ancora caffè di cicoria. Il mio volto è rigato di gocce. Sudore, acqua. Se piangessi potrei fingere che non sia così. Lacrime come rigagnoli tra i rivoli. Pazzesco. Il mio viso inciso da rughe come solchi di una mappa in rilievo. Procedo verso i cinquant’anni. Questo fatto mi terrorizza. Non riesco a mettere nero su bianco i motivi della paura. Forse è solo il timore del tempo che scappa. O forse è il tempo che resta. L’indovino apre leggermente la bocca. Sta per emettere il suo responso. La richiude. Il suo vaticinio è una balbuzie sussurrata. La mia scrittura anche meno. Un cantico ubriaco in un corpo sobrio da oltre un ventennio. Le sigarette mi si accendono ormai da sole. Proliferano i mozziconi nel posacenere di rame. Tutto rinchiuso qui dentro, nel mio studio. Si affaccia sopra la strada mentre il plenilunio si arrangia nell’oscurità. Sopra i carruggi, incorniciato appena prima di imboccare il sottopasso alla marina. Oltre l’ingresso della libreria Uno. Quando un primo sibilo di brezza perfora la bassa pressione e mi sparge il fumo negli occhi. Così non vedo più la tastiera. Devo interrompere la scrittura. Scrivi morente scrivi.
Mi hanno rubato l’identità senza che nemmeno me ne sia accorto. Il mio animo tuttavia è rimasto integro. Improvvisamente mi sono ritrovato buttato contro un muro dove c’era una di quelle scritte che imperversavano negli anni ottanta. “Dio c’è”. Le leggevo da ragazzino buttato sui sedili dietro dell’Alfa di mio padre mentre divorava l’asfalto. Senza comprenderne il senso ne rimanevo estasiato. Non chiedevo spiegazioni in proposito. Era come se a priori non volessi restare deluso da interpretazioni insufficienti. La assorbivo. In seguito ci ritornavo continuamente con la mente. Lo sguardo circonfuso di stupore. Tuttora non ne capisco il senso. Allora intervengo. Cancello Dio e ci scrivo sopra “lo scrittore morente”. In piccolo. Eccomi. Gettato addosso al pilastro di una stazione. Deve essere la mia stessa cittadina anche se sembra irriconoscibile. Nemmeno lei stessa ci si ritrova. La rammento durante la quarantena. Deserta e spazzata dalla gelida tramontana invernale. Pure io mi riconosco a stento. Pieno di acciacchi. Mi sveglio al mattino e mi pare di avere ottant’anni. Entrambe le braccia bloccate. A volte sollevando pesi anche minimi cedono. Prima capitava solo al braccio sinistro. Cristo santissimo. Mi sento così stanco da essere persino stanco di sentirmi dire quanto sia stanco. Esausto. Stremato. Ma rieccomi. Al principiare delle doglie di una gravidanza isterica di follia collettiva. Il trionfo della demenza.
Ogni sera trascorro almeno mezzora a spalmarmi unguenti ed a ingurgitare intrugli benefici. Al momento ho la sensazione di stare meglio. Una sorta di effetto placebo dettato dal prendermi cura di me. Al mattino ho di nuovo ottant’anni. La carcassa che scricchiola. Rieccomi allora. Stretto dentro il canovaccio di un via vai che non è più lo stesso. Assorbito da un convoglio lungo la mia tratta abituale che ha settanta minuti di ritardo. Anch’egli ignoto a se stesso. Ha dimenticato la puntualità scientifica e irreale della quarantena. Ha scordato pure i dieci minuti di ritardo cronico del tempo di prima di tutto questo. Lì sopra sono ostaggio del malumore dei vacanzieri e della lamentazione incessante sui condizionatori che ognuno vorrebbe alla sua temperatura prediletta. Cristo santissimo. Oltre solo farfugliamenti ebeti, sghignazzate o risate forzate. Incidentalmente emergono parole confuse, sparpagliate, le une contro le altre. Piovono discorsi di mentecatti. Le urla di Tommi a paragone sono una prolusione universitaria. È il precipitato occasionale di un inarrestabile delirio generale.
Trombe da stadio. La gente vomita fuori la pandemia. Colore verde bile. I comportamenti tracciano una parabola ben peggiore delle parole che potrebbero descriverli. Il pensiero latita. Per i pessimisti definitivamente. È la fase della suburbia. Quando la riflessione abbandona l’uomo si precipita in un’era primordiale di scontro. Tutti contro tutti. La guerra civile prima della civiltà.
Sono così dolorante che fatico nel battere sulla tastiera. Recependo la mia sofferenza un refolo di brezza rinfrescante s’intrude dalla finestra nel mio studio. Lo riconosco. È rimasto lo stesso. Continua ad affacciarsi su via Fottenghi. La domina. Ne aspira la vitalità trasformandola nel centro dell’universo. Lì gravita tutta la mia ipersensibilità. Cristo santissimo. La strada è una bolgia. Non è mai stata così. Il rombo delle motorette perfora la barriera del suono. I mocciosi ora strillano come tacchini sgozzati. I ragazzetti implorano coca cola come drogati in astinenza. Bande di giovinastri fatti imperversano avanti e indietro. Il Tartaruga Express, il trenino turistico, utilizza tutta la sua prepotenza per passare. Gli autobus strombazzano. Incidenti uno via l’altro. I mezzi della nettezza urbana strombettano. I pedoni si rincorrono e si azzuffano sopra marciapiedi irriconoscibili. Sono lastricati di urina di cane, di vomito umano e di feci di animali ignoti. Alcuni sono colti da infarto. Altri scivolano, si accapigliano. Che dio vi benedica. Lo scrittore morente c’è.
Rieccomi.
Il giorno di ferragosto. Le orde sciamano lungo i bordi della strada orlati dagli avanzi del gozzoviglio notturno. La notte tenta di occultare ciò che il giorno ha abbandonato. Ne restano le tracce. Nessuna pioggia le laverà. Nell’alba un fetore nauseabondo che nessuna brezza smorzerà. Quando ricominciano gli odori tutto si mischia in un guazzabuglio indistinto. Le mascherine lo filtrano ulteriormente. Ancora le sirene delle ambulanze, l’incauto tuffo ferragostano post-prandale. Poi un’immensa pennichella. Una siesta messicana.
Ti si scompigliano i capelli e sorridi. Elargire sorrisi è uno dei miei compiti. Invento iperboli che li allargano quando la monotonia dell’inganno quotidiano li tiene serrati. Pure stamane mi sono svegliato di buonora. Le giunture hanno scricchiolato di nuovo come quelle di un ottantenne. A nulla valgono le mie pratiche sciamaniche. Mi sto perdendo. Cerco disperatamente di ritrovarmi. Intanto ieri proprio lungo via Fottenghi e con un giorno d’anticipo si è realizzata una delle mie previsioni d’aruspice. Non è stato un accoltellamento ma un’aggressione con collo di bottiglia. Centinaia di persone erano schierate sul marciapiede opposto per filmare l’arresto di un Orlando furioso a dorso nudo. Costui schiumava dalla bocca per la rabbia e per le dosi di stupefacenti in corpo. Erano le dieci di mattina. Tentava di resistere ai pubblici ufficiali. Loro sono stati bravi. All’italiana. Nessuno si è fatto male. Girano già anche troppi video. Un’interruzione nella liturgia. Uno spettacolo nello spettacolo della messinscena agostana. Che dio vi benedica tutti quanti e che possa continuare a farlo.
Nuoto, nuoto e nuoto. L’acqua è melmosa e tiepida. I pesci si sono rifugiati al largo. Forse per timore del Covid. I gabbiani stanno immobili in cima al cielo. Più in alto non si può. Lassù c’è nuovamente qualcosa di fosco, di appannato, di opprimente. Nuoto, nuoto e nuoto. Non si vede il fondale. Nemmeno l’orizzonte. I gabbiani sono solo mezze ombre. Fugaci in un transito perentorio. Puntini baluginanti, come le boe e le corde che le sostengono. Ferragosto ha riversato tutto il suo sudiciume in mare. Le mie mani cieche incontrano di continuo corpi estranei. Il trionfo dell’immondizia. Quando una patina viscida e biancastra fiorisce sul pelo dell’acqua è il momento di affrontare la muraglia di extraterrestri che abitano la spiaggia. Corpi gonfi, sudati ed arrossati, coperti di schegge di sabbia. Animali preistorici affondano nel loro destino pietroso. Il mare s’ingrossa e spazza via il bagnasciuga. Lo colma di rifiuti. Che dio possa continuare a benedirvi. Se il Covid dovesse avere un luogo prescelto, potrebbe essere questo. Con indosso la cuffia e gli occhialini calati mi allungo fino ad un muretto fuori la spiaggia. Mi rivesto lì, dove non c’è nessuno. Un tentativo di stare fuori dal branco. Un refolo di aria più saggia mi investe e mi lascia esterrefatto. Lo scalpore di essere un alieno tra gli extraterrestri. Il treno fischia lontano. Vorrebbe svegliare il mondo dal suo torpore di pomeriggio festivo. Nel mezzo di agosto le parentesi sghembe risultano equidistanti. Osservo il mio corpo sollevarsi dal muretto e intraprendere la strada. Ho bisogno di una doccia infinita. Vivo dentro un sogno dal quale vorrei svegliarmi. Non ci riesco. La doccia gelida forse. Per sbalzarmene fuori. Che dio possa benedire anche me. Ormai buona parte della quarantena deve essere stata rigurgitata. Andrà meglio.
Alloro ripercorro quei tratti che affrontavo nel silenzio più profondo e nella solitudine. Li rivivo in un’estasi mistica. Sento stridere la folla nei carruggi e nelle piazzette. Strabordano i tavoli all’aperto. Ribolle il lungomare. Ricordo quando veniva giù tutto e nessuno se ne capacitava. Le montagne, i fiumi, i ponti, le massicciate, le gallerie. Vacillava il promontorio della Caprazoppa che era lì da sempre. Quando è sopraggiunta la pandemia sono state chiuse le scuole per precauzione. A Ponente era febbraio. Mi ero appena messo in viaggio deciso a raggiungere mio padre per parlargli. Tempestivamente sono rientrato. Improvvisamente qui era come se fosse agosto. Come ora. Decine di migliaia di lombardi e piemontesi si erano riversati in riviera. Famiglie, bambini, nonni, adulti. Tutti qui. Una conclusione d’inverno molto accogliente. Quasi un acconto di primavera. I carruggi implodevano come oggi. Nessuno immaginava ciò che da lì a qualche giorno sarebbe accaduto. I contagi si sono moltiplicati anche così. Il mondo era in vacanza, frenetico e privo di pensieri. Poi è stato chiuso tutto. Tutti serrati in casa come dentro le mura di una cella. Nessuno si è ribellato. Solo nelle carceri vere si è sollevata la protesta. È stata sedata a manganellate nella sordità assoluta. Io ho continuato a girare. Non avevo alternative. Meglio peraltro. Non riesco a stare fermo. Una reclusione sarebbe la mia fine.
Che dio possa benedirci tutti quanti e risvegliare le nostre coscienze. Tendiamo a rimuovere. Come fossimo terrorizzati anzitempo dai nostri errori. Personalmente ne sono un collezionista. Esco e mi perdo al fondo della mia stessa strada. Mi smarrisco dentro i pensieri.
Pazienza.
“Ne hai ancora di pazienza?”
“Non so. Dovrei cercarla. Ma non saprei bene dove.”
Forse è calpestata dal ciabattio indolente lungo via Fottenghi. L’inarrestabile processione a mare e ritorno. Un’invisibile timbra cartellino scandisce i ritmi forzati della catena di montaggio della villeggiatura. Cristo santissimo. Che dio vi benedica. Luminoso e costante. Ormai non sono più niente. Forse appena un rimasuglio dell’antico scrittore morente. È rimasta la mia testa a rotolare al centro della strada. Discorre a vanvera. Il cuore lauto e poderoso batte chissà dove?
“Tu lo sai, forse?”
“Non ne ho idea.” Mi rispondi e sei tu a strizzarmi l’occhio.
Io ci casco. Del resto da quando mi hanno temporaneamente sottratto l’identità sono ancora più confuso di prima. Le dita scorrono lungo la tastiera e battono correttamente le lettere nella semioscurità del tramonto. Un autobus di linea ha ancora la forza di suonare il clacson con una violenza furibonda. In quel lasso di tempo isterico la coda dalla strada si è già allungata sino all’Aurelia. Pazzesco. Un groviglio rovente di motori, di frizioni, di motorette, di biciclette contromano, di pedoni arrostiti dal sole. I gas di scarico si alzano verso il cielo e lasciano ai gabbiani il verdetto finale. Non ci sarà nessuna redenzione, nessuna resurrezione nessuna remissione. Che dio voglia benedirvi l’ultima volta e concedervi la sua compassione.
Le cucine dei ristoranti e i forni delle pizzerie devono mandar fuori le comande. Anche disordinatamente. Chi se ne importa del domani. Un telecomando impazzito dirige il palinsesto. Tutto accade ma potrebbe anche non succedere. Svela i connotati di una commedia all’italiana. Della tragedia rimane solo l’urlo di Tommi sulla panchina. Molti ridono. Per mascherare la paura. Le mascherine non sono sufficienti. Celano grugni ma non nascondono il terrore. Quello lo leggi negli occhi. Io ne sento anche l’odore. Pure questo è un dono. Sento la paura crescere addosso le persone ed invadere i loro corpi. Supera ogni altro afrore. La sua puzza. La riconosco come gli animali.
“Tu ne hai ancora di pazienza?”
“No caro, persa tutta.”
Sto sudando freddo nonostante i trentotto gradi. L’emicrania è ricomparsa. L’attacco perdura da quasi ventiquattrore. Il sovradosaggio di ibuprofene seicento potrebbe avvicinarsi al tentativo di suicidio. Il dolore deflagra e non accenna a entrare in remissione. Nuoto, nuoto e nuoto. La vista è annebbiata e opalescenze azzurre, minuscole e sferiche, sfarfallano dinanzi agli occhialini. Un’eventuale congestione nel mezzo di una nuotata non è semplice da gestire. Tuttavia devo resisterle per il tempo necessario a rientrare. Non batto ciglio. Dopo batterò i denti. E anche i pugni contro il muro della doccia per reagire e rispondere al dolore. Che dio mi benedica e io lui, che mi ha concesso di essere così forte. Maledico invece il trambusto di radio dalle auto in corsa, i mocciosi che strillano, i ragazzetti che urlano e gli adulti che gridano ancora più forte. L’autobus strombazza ancora. Meccanicamente. La strada è sgombra. Oramai è tutto una provocazione, una lite, un’occasione per digrignare i denti e venire alle mani. Cristo santissimo. Che dio vi maledica.
Ieri sera c’è stato l’accoltellamento come predetto. L’umanità si azzannerà per strada. La guerra civile senza civiltà. Le zanzare tigre sono arrivate sin qui. Accovacciate dentro i tappetini delle auto provenienti dalle pianure del nord. I pipistrelli, tornati durante la quarantena, sono già spariti. I gabbiani sempre lassù nell’altissimo. Il virus invece dorme nella spiaggia libera, accanto a quel signore. Durante il giorno stracanna lattine di birra e poi gioca a tenerle vuote in equilibrio sulla testa. La gente ride e gli dà delle monete. Lui compra altre birre. Di sera barcolla come un sonnambulo ubriaco. Attende che prima i piccioni e poi i gabbiani ripuliscano il grosso dei rifiuti. Infine vi collassa sopra. Residuo di umanità gonfia e stordita. Nel guazzabuglio non ho scorto un solo sorriso aperto né tracce di allegria spontanea. Mi sento un superstite quando l’emicrania comincia a degradare. Sempre il tramonto dietro la Caprazoppa. Ogni santissimo giorno.