di Gunda Dworschak. Architetto, autrice e curatrice di libri di architettura e design italiani e tedeschi, è redattrice di un magazine dedicato all’arredo e l’interior design. Ha frequentato il corso base e il corso avanzato della scuola di scrittura Arte del Narrare.
Cos’ha da guardarlo la vecchia ferma al semaforo col suo cappotto informe, il berretto a cuoricini e quei ridicoli scarponcini col pelo finto? È verde, vai no? Cazzo vuoi? La faccia nell’unico raggio di sole che s’insinua tra i palazzi fino a quella stanza, sta seduto al tavolo davanti alla finestra. Su un foglio scrive: l’impicciona. Accende una sigaretta, ogni tanto con le unghie gratta via dal tavolo delle minuscole macchie scure, segue con lo sguardo chi attraversa la strada, sposta un vecchio mattone incrostato di calce da una pila di fogli a un’altra, e li ascolta. Sono in video ma non li guarda, almeno questo. Lo sanno che rintanato da qualche parte lui li sta spiando, ma lo ignorano ugualmente, quasi con metodo. Potrebbero salutare, rivolgergli una delle loro preziose parole, ma no. Sanno benissimo che la loro voce e la faccia si diffonde a infiniti chilometri di distanza nel mondo di fuori, verso il grande universo dei perdenti, degli esclusi, ma fanno finta che non esista. Leggiadri si dedicano ai pochi eletti, al fidato gruppo di intellettuali che si raduna nello spazio rassicurante di una libreria del centro. Circondati da muri di alte parole, proferiscono, puntuali ogni settimana, lezioni di letteratura sublime. Nella sua tana agganciata alla fine del milionesimo cavo, è lì che ascolta. Ad ogni parola più irritato.
Non c’è bisogno di avere fatto il lavapiatti nella vita per saper scrivere un dialogo fra lavapiatti, spiega lo scrittore. Valli a lavare te i piatti – sibila tra i denti – che ne sai di quegli avanzi schifosi malamente tagliuzzati, chissà quante volte rimestati e alla fine sputati sul piatto. Del disgusto, della voglia di vomitare. Di tutte le volte che non mandi a fanculo i signori camerieri che ammassano in cucina i piatti con tutti i resti sopra. Altroché se serve fare le cose per saperle raccontare. Devono entrare sotto la pelle come il sugo unto, i frammenti di cielo stinto tra i tetti difronte, il gas delle auto ferme al semaforo, l’aria che manca sull’autobus bloccato nel traffico. Come quelle piccole figure curve e grigie sul marciapiede, disperate anime metropolitane che corrono, si urtano, nell’avanti e indietro per la via della loro frenetica solitudine. Come la stupida impicciona sul marciapiede lì davanti.
Le rimanda uno sguardo fisso, ostile, e finalmente la vecchia se ne va. Apre di uno spiffero la finestra e sbuffa fuori il fumo, per un attimo vede il suo riflesso nel vetro, la sua pelle pallida tirata sulla faccia come se non bastasse a coprire gli zigomi. Gli occhi liquidi, i suoi denti da cane, gialli e troppo aguzzi, la smorfia cinica.
Com’è la faccia di un lavapiatti? Per caso rotonda? Più come una fondina per la pasta o un piatto per una bella bistecca al sangue? Che ci provi il signor Scrittore di Successo col signor Lavapiatti e i signori Camerieri. Chissà cos’ha scritto questo nella vita, pensa, magari nei suoi libri ci trovo pure un signor Assassino con delicati guanti in pelle di cervo. Il suo sguardo vaga per i cumuli di carta appallottolata e gettata in ogni angolo della stanza. Ad ogni mucchio un fallimento, mesi di carta straccia da mandare al macero, testimoni di niente da distruggere, finalmente. Perché l’anelata, mitica, stucchevole, benedettissima ispirazione era infine arrivata. L’aveva vista dalla finestra, era passato quasi un mese.
Una minigonna a fiori che ondeggia mentre attraversa di corsa la strada, lunghi capelli biondi, grosse scarpe da ginnastica e due gambette esili. Poi lo sbattere del portone d’ingresso sotto di lui. Aveva spalancato la finestra per guardare giù, ma c’era solo la vecchia col berretto che rimestava nella sua borsa, la bionda non si vedeva più. Si era precipitato verso la porta di casa e, l’orecchio incollato al legno, l’aveva sentita. Una vocetta cinguettante:
“Appena arrivata nella mia nuova dimora! Ti chiamo dopo…”, e giù a ridere.
All’inizio l’idea del maniaco che rapisce le ragazzine gli era sembrata mostruosamente banale, ma la biondina gli si era conficcata nel cervello come un chiodo. Era piovuta nel monolocale del piano terra come se planasse direttamente dalla luna. L’aria candida, uno sguardo gentile, quasi timido. Una studentessa arrivata dalla provincia con tutta la sua buona educazione e la felicità di avere trovato un appartamentino dal prezzo accettabile a dieci minuti dall’università. Poco importava se il quartiere era orribile, di quelli che sono vent’anni che aspettano la gentrificazione, dieci minuti sono dieci minuti. Ogni tanto veniva a trovarla un’amica. Il giorno dopo il suo arrivo le aveva sentite parlottare allegre al piano di sotto mentre trafficavano al contorto sistema della vecchia porta blindata che proteggeva il monolocale. Era scivolato leggerissimo fino al suo ingresso e aveva socchiuso l’uscio. Adorava il fresco tintinnio delle loro voci:
“Se mi dimentico ‘sto codice, non entro più in casa”, rideva la biondina. E l’amica:
“118Sesamo123, ma che cazzata è? Ti conviene cambiarlo Fede, ci arriva anche un deficiente.”
“Ma no, c’è anche una levetta segreta, guarda qui.”
“Oh, genialata spaziale eh! basta alzare gli occhi per vederla.”
“Ma piantala, pirla.” E giù risate.
Pure simpatiche, sospira buttando fuori il fumo, ma il suo libro ha la precedenza. Intanto l’origliato si confessa, dal cellulare malconcio lo ascolta gracchiare del blocco dello scrittore, riferisce di frustrazioni segrete, creatività perduta, di pagine scritte a caso che diventano un libro di successo. La sua rabbia monta fulminea, feroce: si-come-no, scrivere a caso, senza pensare, come viene-viene… che scrittore, che artista! Le mani in testa si tira i capelli, più forte, finché fa male davvero. Furioso pesca un foglio dalla pila di sinistra e scarabocchia “Belle le loro risate squillanti, pensò guardandosi le mani ferite, le macchie livide sui dorsi e le unghie rotte mentre le sue dita si muovevano frenetiche per avvolgere di pellicola il corpo a partire dalla testa. I capelli si muovevano, si elettrizzavano, si incollavano alla membrana, coprivano quel volto che lo fissava ancora incredulo…”. Così, forse. Il tono giusto per il finale, perché quest’uomo è pazzo… Altro che lavapiatti, cari scrittori che nemmeno salutate. Se sapeste.
Aggiunge un punto interrogativo e rimette il foglio sul mucchio con gli appunti sparsi da rivedere poi, dopo… Dall’altro lato sotto il mattone fogli di parole a caso, impressioni di attimi vissuti, emozioni grezze da rifilare e tessere in frasi sconvolgenti, di quelle da fare accapponare la pelle ai lettori. Ha fretta. Deve finire la sua opera, mandare il manoscritto, non vede l’ora di immaginarli gli Origliati colti saltare dalle loro comode sedie, sbarrare gli occhi, guardarsi attoniti e rianimarsi, discutere e avere davvero, finalmente, paura.
Improvvisamente c’è silenzio, lo scrittore ha smesso di parlare. Così, di punto in bianco, senza salutare. Arroganti come al solito. Non come la Fede, lei lo saluta sempre, sorride anche. Il giorno dopo il suo arrivo, aveva creato il check-point dell’ispirazione: tavolo di lavoro, pile di fogli, computer, lampada, ciabatta e cavi, tutto era stato spostato alla finestra. Da allora controlla i suoi movimenti, entrate e uscite, dalla mattina alla sera. Vestito di tutto punto, jeans di marca slavati e giubbotto in ecopelle nero, sneakers vecchi mezzi aperti, i capelli disordinati il giusto e chiavi di casa già nella tasca dei pantaloni. La perfetta mise dell’uomo giovane e dinamico, moderno e un po’ creativo, il tipo figo che non se la tira troppo. Ogni volta che la vede spuntare all’angolo della via si precipita giù per le scale giusto in tempo per incrociarla, aprirle il portone e sorriderle frettoloso come chi ha cose importanti da fare. Buongiorno, buonasera. Gentile. E mentre l’aspetta, annota, imbastisce trame, descrive l’assassino: un uomo viscido e voglioso come il macellaio di fronte. Un omone grosso e pelato con la barbetta grigia tagliata con cura, che oltre il vetro del piccolo negozio con le piastrelline bianche tirate a lucido vede maneggiare coltelli e ammiccare alle clienti più facoltose, ricche di famiglia col marito che guadagna. Era entrato una volta sola per prendere una costata e quello gli aveva chiesto sogghignando se avesse bisogno di testosterone. Da tirargli un pugno in faccia. La galera ci voleva. Nei suoi piani avrebbe perso la testa per una giovane donna, una bella studentessa bionda dalle gambette esili che ogni sera andava a comprare un hamburger per la cena. Perché la Fede faceva così, aveva scoperto nel frattempo. Una soluzione talmente semplice non gli sarebbe venuta in mente.
E se poi mi arrestano, pensa? No, impossibile, nessuno arresta gli scrittori di thriller, mai successo. Sicuro? Devo essere prudente, pianificare minuziosamente ogni dettaglio. Meglio verificare in Internet. E se la ricerca lascia una traccia? Cercare in incognito, vuotare la cache… alla fine però quelli riescono sempre a scovare tutto lo stesso. Escluso andare all’internet point vicino a casa, sa che lì registrano pure la carta d’identità per dare una postazione. Dovrà cercare in giro, camminando, al diavolo la macchina di sua madre abbandonata con tutte le sue multe. La metro è tutta una telecamera e quei miseri edicolanti con i biglietti tutti delle spie, rimugina piantando i suoi denti aguzzi nella matita. Gente abbruttita, frustrata e rancorosa, pallida come il neon della città interrata. Gente.
E con la app sarebbe punto e a capo, registrato, localizzato. Un minimo errore e metterebbero insieme la scomparsa di una ragazza e l’autore del thriller di successo che abita nello stesso palazzo, al piano sopra per giunta. In un secondo finirebbe sui social degli amici della Fede e sarebbe additato per strada da tutti quei bravi cittadini curvi e frettolosi che passano il tempo a farsi gli affari degli altri come la vecchia del marciapiede. Sa di dovere controllare ogni mossa.
Del finale non si preoccupa. Il macellaio avrebbe fatto un passo falso, non ne sapeva nulla dei controlli dell’Internet, altrimenti non avrebbe tappezzato il suo facebook con foto di ragazze ammiccanti e volgari meme dal doppio senso inequivocabile. L’avrebbero preso per le sue ricerche in rete di giovani prostitute, solo bianche e bionde, e accusato di avere ucciso una ragazzina che lui amava prendere in giro ogni volta che veniva a comprare il suo hamburger special.
Il solito chilo di manzo fresco-fresco, signorina bella? Lui che si diverte un mondo e sghignazzando le dà un filetto di vitello al posto del macinato – domani mi dici se era tenero al punto giusto – lei che avvampa e si guarda intorno quasi a scusarsi con gli altri clienti. Povera Fede, sospira.
Prima però deve mettere in fila tutti gli eventi e mille dettagli. Il corpo l’avrebbe murato in cantina. I mattoni li aveva recuperati in una discarica abusiva di cui aveva sentito parlare una volta in un bar. La calce e la sabbia le aveva in casa da quando avevano riparato un tombino davanti al palazzo qualche mese prima e i muratori avevano dimenticato dei sacchi. Quadrava. Inizia quasi a dispiacergli portare a termine l’opera, la Fede è una così brava ragazza… bella, leggiadra, sorridente. Eppure al mondo ci sono esseri disgustosi, vogliosi e spregevoli, come il macellaio.
Nel silenzio della sua casa vuota, si ricorda del giorno in cui correndo giù per incontrarla era stato lì-lì per cadere. Fede lo aveva visto in bilico quando aveva aperto il portone e fatto in tempo a trasformare una grossa risata in un grande sorriso. In quel momento si era arreso e aveva sorriso anche lui. Chissà se aveva notato i suoi denti troppo aguzzi.
“Beh, troppa fretta credo” aveva detto, tentando di nascondere l’imbarazzo di chi è colto sul fatto.
“Si è fatto male?” Gli dava del lei. Aveva a malapena dieci anni in meno e gli dava del lei. Ma cosa pensava, che lui fosse un vecchio, uno già superato, del tutto inutile in questo mondo? Che il mondo fosse tutto loro, dei giovani, dei mezzi ragazzini? In quel momento aveva sentito scendere l’ascensore. Ci mancava anche questa, aveva pensato. Sapeva di dover evitare di farsi vedere con lei, a tutti i costi. Non doveva lasciare tracce, lui la Fede l’aveva a malapena intravista, lei era solo la sua inafferrabile ispirazione. Un piccolo fiore tra le erbacce, due grandi occhi verdi truccati solo con un piccolo punto nero di matita sotto l’iride, come la lacrima di un pierrot, piccola, piccolissima.
“No, niente, ma forse è meglio se torno su e controllo meglio. Grazie, ciao.”
Aggrappato al corrimano aveva salito veloce le scale ascoltando la frenata dell’ascensore, il cuore che batteva, le antine che sbattevano sui lati della cabina e il click dello sportello. Un piede in casa e dall’ascensore era uscita la vecchia con il suo cappotto informe, il berretto a cuoricini e i ridicoli scarponcini col pelo finto. Inchiodato dietro alla porta le aveva ascoltate.
“Buongiorno signorina”, aveva esordito con una vocetta stridula l’impicciona.
“Buongiorno signora.”
“È nuova qui? Non l’ho mai vista.”
“’giorno. Sì. Cioè, sono qui da due settimane.”
“Ah. Che bella novità. Io ci abito da qualche mesetto. E dica signorina, lei come si trova qui?”
“Bene grazie.”
“Lei studia, vero, signorina? La vedo così giovane…”
“Sì-sì, studio.”
“E cosa studia di bello, se mi posso permettere?”
“Lettere.”
“Ah, lettere! Molto interessante. La grande letteratura, e gli scrittori poi, vero? E dica, conosce già qualcuno qui nel palazzo?”
“No. Ho giusto incontrato un signore del piano di sopra.”
“Ah, mica quello che sta sempre alla finestra a spiare la strada. Vuole diventare uno scrittore anche lui, pare.”
“Non so, devo andare signora.”
“Sì certo cara, devo andare anch’io, ho commissioni molto urgenti da sbrigare. Se ha bisogno non esiti, mi trova al quarto piano. Arrivederci signorina. E si guardi dagli scrittori…”.
Dalla finestra del primo piano l’aveva poi vista attraversare la strada come una balena che lotta con le onde. Prima che si voltasse era riuscito ad infilare la testa sotto al tavolo. Vecchia impicciona del cazzo.
Le attese che Fede tornasse erano snervanti, alla faccia degli orari scolastici delle università. Le quattro del pomeriggio, le sette, le nove di sera o ancora più tardi. A volte addirittura non tornava proprio. Così. Chissà, pensa mordendo la matita che questa volta si spezza, forse lavora qualche sera in un bar alla moda. O se ne va a spasso con gli amici, i suoi compagni di corso, o ha un fidanzato, uno giovane e bello con tutta una vita costellata di successi davanti a sé. Non come lui di certo, con i suoi denti da cane e gli zigomi da morto di fame. Lì però non si era mai visto nessuno tranne l’amica dell’Apriti-Sesamo. Mai una madre, un padre, una zia, zero famiglia da un mese che stava lì, una cosa strana. Altro che gli immancabili con-chi-esci-dove vai-e-quando-torni gridati da sua madre dalla cucina. Da studente lavapiatti, ai tempi in realtà era semplice, di rado tornava prima della mezzanotte, lei aveva dovuto mettersi il cuore in pace. Finché aveva retto. Il giorno dopo il suo funerale era entrato nella sua stanza da vedova con il grande letto matrimoniale usato da anni e anni solo per metà. La coperta sgualcita sul lato della finestra, le cornici con foto sbiadite e una madonnina di Lourdes in plastica bianca e azzurra sul comodino. Aveva aperto la finestra di un dito, spento il riscaldamento e chiuso la porta. La fine di un capitolo. Da allora entra solo per metterci quel che riesce a rubare al supermercato più vicino, il super-dei-peggio come lo chiama, affollato da poveracci come lui, drogati, barboni, extracomunitari, vecchie sole e studenti squattrinati. Ci lavora a chiamata, a volte qualche ora a volte tre giorni di seguito, da quando un’estate aveva rimpiazzato un cassiere che si era dato malato per farsi le ferie. Lui le ferie neanche si ricorda dove le faceva un tempo. Le telecamere non funzionano, le tengono tanto per, come se ci credesse qualcuno. Rubano tutti, chi più chi meno. Di sicuro la Fede non ruba nei supermercati, o forse sì? Se è venuta ad abitare in quel buco forse ha dei genitori poveri, una mamma o un papà da qualche parte che le danno due soldi e che sarebbero venuti a cercarla se non si fosse più fatta viva. Sarebbero stati guai per quello schifoso con le foto online che non fa lo scontrino neanche per mezza mucca. Nella bozza del manoscritto aveva già semplificato, la Fede era una povera orfana magrolina che si arrabatta per studiare. La bella e la bestia senza happy end, troppo semplice di sicuro per gli intellettuali, ma il suo capolavoro avrebbe venduto copie su copie e l’avrebbe tirato fuori da quella miseria inascoltata. Avrebbe cambiato casa, quartiere, preso un attico in centro dove alle auto è vietato circolare e i vicini si fanno i fatti loro. Avrebbe messo il tavolo in terrazza e visto solo cielo fino alle Alpi e fino al mare. E affittato anche una casa per la Fede, perché pure lei si meritava una zona migliore.
Si scuote di colpo, cosa andava pensando? E basta chiamarla la Fede, dice ad alta voce. Lei è La Vittima, null’altro, la vittima del bastardo. Prende il manoscritto, capitolo x, …la Fede è china sui libri… Dovrà cambiarlo ovunque quel nomignolo, lo farà alla fine, adesso non riesce a scrivere senza chiamarla per nome. Prova a toglierlo: china sui libri… Ma li leggono ancora i libri i ventenni? cos’hanno nelle loro stanze i millennial, quella generazione digitale che guarda il mondo dal telefono, tutta cavi, schermi, computer, alimentatori e nuovi congegni che registrano ogni sospiro e ti chiedono di cosa hai bisogno? Le scaffalature, radio, riviste, foto stampate e incorniciate, televisori, esistono ancora quelle cose nelle loro case? Il suo sguardo vaga tra la credenza in stile che sua madre lucidava una volta al mese, la libreria con i tre vasi in vetro di Murano colorato che spolverava ogni giorno e la poltrona con la fodera elastica a fiorellini su cui sedeva la sera a guardare la televisione, e si addormentava aspettandolo.
Devo andare giù a vedere, decide. Fare un sopralluogo per inquadrare la scenografia, preparare la scena del delitto. Il macellaio avrebbe trovato una scusa – l’hamburger consegnato farcito anziché semplice o il resto dato sbagliato – per suonare alla sua porta. Lei gli avrebbe aperto, educata e imprudente, un passo deciso e sarebbe entrato chiudendosi la porta alle spalle. E poi? Forse la Fede avrebbe balbettato si-grazie-non-era-il-caso e lui sei-una-ragazza-così-carina-fai-la-brava-solo-una-volta-e-me-ne-vado? Lei avrebbe urlato e lui l’avrebbe presa per il collo per farla tacere… se-urli-ti-ammazzo… L’artiglio alla gola lei avrebbe scalciato, il bastardo l’avrebbe buttata a terra, le sarebbe piombato sopra e stretto le due mani intorno al collo fino a quando non avrebbe smesso di muoversi. Fede non avrebbe pianto lasciandolo fare, spogliati-girati-inginocchiati-così-da-brava-vedrai-che-ti-piace. No, si sarebbe difesa, ne è certo. E sarebbe morta. Ha la pelle d’oca al solo pensiero. Inorridito, orribilmente eccitato, rimette gli appunti sotto il mattoncino, sbuffa, si alza, si sistema i pantaloni, allontana pensieri, fa evaporare il calore. Accende una lezione degli Origliati: “Gli incastri prevedono che alcune cose succedano dopo delle altre. Sono meccanismi di precisione…”. Gli incastri. Domattina entro, cara Fede.
La notte passa lenta e rumorosa. I soliti schiamazzi, sirene di ogni genere, portiere delle auto che sbattono, il primo autobus che sgasa per ripartire al semaforo. Alle cinque decide che può bastare. La moka è sul gas dalla sera prima. Un caffè alla finestra mentre il ronzio metropolitano riparte lentamente. Sul tavolo in cucina è tutto pronto. Disposti in ordine ci sono i guanti delle pulizie, un pacchetto di fazzoletti di carta con l’apertura già scollata e la borsa in finta tela del suo supermercato. La radio manda il primo notiziario, il secondo risuona mentre un uomo con la coppola di traverso esce dal portone, il terzo quando il sole si sta già insinuando tra i palazzi. Alle otto e mezza in punto, puntuale per una volta, esce la Fede. Zainetto in spalla, il lungo cappotto color cammello fasciato stretto in vita e il berrettino di lana blu tirato sugli occhi. E i lunghi capelli biondi svolazzanti al vento, come sempre. È troppo imprudente, pensa, quei capelli li deve raccogliere in una treccia, non si rende conto dell’effetto che fanno – ai maschi primitivi come il macellaio. Un attimo dopo compare anche la vecchia impicciona. Le vede attraversare la strada, la Fede di corsa, l’altra trotterellando a piccoli passi veloci. Cosa avrà mai da fare quella che va e viene in continuazione, brontola alzandosi dalla sedia. In cucina infila veloce fazzoletti e guanti nella borsa, prende il giubbotto dall’attaccapanni nel corridoio e torna in soggiorno a spegnere la radio che sta parlando di qualche sciopero in città che come tutti gli anni non poteva mancare. Va alla finestra e mentre prende il cellulare dal tavolo, butta un ultimo sguardo sulla strada, sia mai che la vecchia stia già rientrando. La via si sta risvegliando, il traffico è già bloccato, il macellaio alza la sua saracinesca. Girandosi per uscire il suo sguardo cade sul mattoncino sopra la pila di fogli da mandare agli Origliati. Ha un fremito alla nuca, un’improvvisa pelle d’oca che scivola lungo le braccia fino alla punta delle dita. Lasciarle un segno. È stupido, si dice. Mettere un’inquietudine in quell’andirivieni tra casa, università, amici, in quel “tutto a posto” da brava ragazza. Non devo lasciare tracce, è da idioti. Rialzando gli occhi vede il macellaio infilarsi goffamente il grembiule bianco, abbottonarsi a fatica i bottoni lungo la pancia gonfia. Ha un moto di stizza, è ora di scendere. Agguanta il mattone e lo caccia nella sacca. Deciderò una volta entrato, si dice.
Sulle scale nessun rumore. Scende silenziosamente le due rampe. Guanti, 118Sesamo123, levetta in alto, aperto. Grazie amica pirla di Fede.
Dietro alla porta un appendiabiti che sembra una montagna, a sinistra una tenda mezza tirata, addossato al muro un letto a una piazza coperto da vestiti sparsi, in un angolo scarpe gettate alla rinfusa, sulla parete di fronte un armadio semiaperto da cui sbucano disordinate borse, borsette, una cintura, un guanto. In mezzo alla stanza due sedie e un piccolo tavolo con pile di libri, dall’altro lato un metro o poco più di cucina, sul piano arance, pane toast, Coca Light, la caffettiera, un pentolino, una grossa ciotola piena di cavi e alimentatori. Nell’angolo un cubicolo con una porticina. Incapace di muoversi, annaspa. Fa caldo lì dentro. In apnea guarda quel disordine sgraziato tentando, inutilmente, di combinarlo con la faccia della Fede, con i suoi modi perfettini, con il suo gonnellino a fiori e i lunghi capelli biondi al vento. Sudato fino ai capelli si scrolla, riempie anche l’ultimo angolo dei polmoni, muove un passo incerto, inciampa in una scarpa, le tira un calcio violento e attraversa la stanza fino alla porticina che si apre su un minuscolo e maleodorante bagno cieco. Un lavandino, uno specchio liso e sbeccato, la tazza sbilenca e una piccola doccia piena di flaconi e boccette, neanche il bidet. È inorridito. La sua musa sta in una topaia.
Si accorge della luce del giorno e dei palazzi solo quando nauseato si volta per uscire da quel buco, un vero cesso, annota meccanicamente. Dritto in faccia, oltre alla finestra e la strada, a dieci metri anche meno, il macellaio sembra guardare verso di lui.
Ha un tuffo al cuore, arretra di scatto urtando il tavolino, due libri cadono sul pavimento piastrellato con un tonfo sonoro, si rannicchia per terra mentre un autobus roboante nasconde il grembiule bianco alla sua vista. Quello schifoso spia la Fede dal negozio. Deve andare via da lì. In ginocchio rimette i libri sul tavolo e a carponi, trascinandosi dietro la sacca, striscia verso l’appendiabiti alla porta. Nascosto dalla montagna di vestiti appesi si rialza, senza fiato. Fuori l’autobus riparte con il suo fracasso, senza riuscire a coprire le raffiche del suo respiro, il cuore che sembra martellare fino alla macelleria. Sulle piastrelle gocciola il sudore, le mani nei guanti sono madide. Si asciuga la faccia con la sacca, pulisce per terra, fa mille respiri senza un pensiero nella mente.
“Ciaooooooo. Io sono tornata a casa, non l’avevo mica sentita la notizia” – e giù a ridere, è la voce della Fede oltre la porta – “E tu? sei ancora lì?”
Maledizione, io sono ancora qui. Deve pensare in fretta, non era previsto il finale adesso. La vittima che rientra a sorpresa, il macellaio nella sua bottega, l’assassino nel posto sbagliato. Bip-bip-bip… il codice. Stringe il mattone che ha in mano. Non adesso, non ora, è troppo presto, non doveva essere così.
“Davvero? Ma a me hanno detto che scioperavano tutti, zero lezioni”. Veloce si infila dietro l’appendiabiti stracolmo. Il clic della levetta.
“Ah, ecco! Il solito stronzo, quello fa lezione cascasse il mondo… o il controsoffitto in classe, come l’anno scorso, ahahaha…”. Il chiavistello che gira. Schiaccia la schiena contro il muro. La porta si apre. Smette di respirare. Un colpo di gomito indietro e l’anta si richiude con un botto, due passi e la Fede è già in mezzo alla stanza. Non si è nemmeno girata, è passata in un lampo a mezzo metro dalla sua mano.
“Va beneee!” – grida nel rumore del traffico che passa attraverso i vetri – “dai Luci, fammi andare un attimo in bagno. Prendo tutto quanto allora?” Butta lo zaino sul letto guardando fuori dalla finestra, si passa il cellulare da una mano all’altra e sfila il cappotto che vola sul letto pure lui.
“Ma anche quella ci serve?” chiede salutando qualcuno fuori sulla strada con la mano. Immobile, incollato alla parete, si chiede se si rivolga al macellaio, ancora lì a spiare oltre la strada.
“Sì, sì, ok, datemi mezz’ora e sono lì con tutto quanto, stai tranqui. Cia-cia-cia-ciao…”, la sente trillare mentre entra nel cubicolo del bagno tirandosi dietro la porticina. In un attimo, girando su se stesso è fuori casa. Respira forte, trema mentre con ancora il mattone in una mano richiude pianissimo il battente. Nella testa martella un unico comando: via, via da lì, subito, su per le scale a barricarsi in casa, a respirare finalmente, a mettersi sotto la doccia, mettersi a letto per ore, per giorni interi e, prima di tutto, rivedere il manoscritto per travasare tutta l’adrenalina che ha in corpo e gira a mille in ogni sua fibra, nelle parole. Quando si volta se la trova davanti.
È un istante. Il braccio si alza e, prima che dalla bocca spalancata esca un grido, il mattone colpisce la testa con una violenza senza senso. Piomba a terra come un sacco, inerme, mentre il berretto a cuoricini scivola sulla smorfia che ha stampata in faccia. Lontano gli sembra ancora di sentire il chiacchiericcio indistinto della Fede, poi tutto è avvolto in una bolla. Il corpo a terra, il mattone in mano, la sacca, la porta della cantina, la chiave da vecchio forziere attaccata al suo mazzo di casa, i guanti che afferrano la testa e brutalmente trascinano la vecchia giù per due rampe di scale, la porta in ferro aperta e richiusa in un attimo, lo sguardo al sacco di calce, bidone d’acqua, scala, mattoni e pellicola predisposti in un angolo, la corsa per tornare su, l’ultima occhiata all’androne e trentasei gradini per rientrare in casa. Senza voltarsi.
La giornata passa senza che succeda nulla di strano. Seduto alla finestra vede la Fede tornare dopo le tre, la bottega del macellaio è piena come al solito, fuori non c’è più nessuno che guarda verso la sua finestra. Come un fantasma rovista nella carta scritta, sposta fogli, cancella righe, aggiunge parole a parole un caffè dopo l’altro, ancora il tremolio nelle vene. Quando dopo le sette vede la Fede uscire dalla sua disgustosa topaia con un perfetto chignon sulla nuca e un’elegante borsetta verde con la catenina dorata sulla spalla, nel suo cervello suona, finalmente, una sveglia. Si alza, infila il giubbotto e scende in cantina.
Il corpo è rigido, il berretto storto sulla faccia stampata, l’occhio aperto da pesce, da vicino la vecchia puzza di marcio. Ribaltarla per avvolgerla è più semplice di quanto avesse immaginato. La impacchetta quasi senza guardarla, rotolandola da una parte all’altra con berretto, sciarpa, cappotto, senza pensare. Alle mani un piccolo anello con una pietruzza rossa, falsa di sicuro, pensa. Solo ora si rende conto che non ha la borsetta. Dove tiene i soldi? O anche, maledizione, gli viene in mente con orrore, dove ha il telefono? Guarda quei seni enormi e informi, nauseato inizia a tastarla lungo il corpo alla ricerca di una tasca gonfia, sulla pancia sente qualcosa di duro. La spacchetta fino al collo e apre il cappotto, si sprigiona un odore di morte. Cucite a mano sulla fodera ci sono due tasche interne, in una un cellulare, I-Phone di ultima generazione. Cosa ci fa la vecchia con un I-Phone? da non crederci. Lo tocca e compare una specie di locandina e il disegno dell’impronta digitale, la batteria è carica al 40%. Toglie il volume, disgustato le prende l’indice della mano destra, lo scalda fra le sue mani per cinque orribili minuti, gli occhi chiusi pensando al sole torrido della città d’estate, alle vacanze su una spiaggia deserta che farà non appena avrà venduto le prime copie del suo bestseller. Appoggia il dito sullo schermo. Sblocco. Euforico cerca nelle impostazioni: spegnimento schermo dopo 30 secondi di inattività. Modifica l’impostazione a dieci minuti, il massimo consentito, e punta sul suo vecchio cellulare android una sveglia ogni otto minuti. Nell’altra tasca trova dei fazzoletti di carta rinsecchiti, le chiavi di casa, un portafogli con quaranta euro e uno scontrino da tre della macelleria – figurarsi, il bastardo. Butta tutto sul pavimento e la riavvolge in fretta, sudato, sempre più furioso, poi spinge il rotolo informe contro il muro, mescola la malta e inizia a impilare un mattone via l’altro al ritmo di otto minuti e un tocco al cellulare per ogni fila.
All’alba è in casa, le mani corrose, il muro finito e una parete da intonacare la settimana dopo. Accasciato sulla vecchia sedia alla finestra, tocca e ritocca il telefono fino alle otto e mezzo del mattino quando la Fede esce puntuale di casa. Un attimo dopo si precipita giù, Apriti-Sesamo e levetta, il cellulare della vecchia con la batteria al dieci per cento nella tasca dei pantaloni, per rubarle un cavo e l’alimentatore. Rientrato, lo mette in ricarica, ne avrebbe urgentemente bisogno anche lui, prima però deve scoprire il segno d’accesso in sostituzione dell’impronta della vecchia impicciona. Sperando che ce l’abbia messo il doppio accesso. Guarda meglio l’immagine sullo schermo, è la copertina di un libro. I suoi propositi di andare all’altro capo della città per cercare un Internet Point saltano, cerca il titolo sul suo vecchio pc, in fondo, pensa, sto solo cercando un libro. Premio Strega, autrice Rosa Di Teresa. C’è anche una foto dell’autrice, si vede male, ma il suo stomaco si serra. Con un profondo respiro prende il portafogli dell’impicciona posato sul tavolo e guarda la carta d’identità. È lei.
La vecchia: un premio Strega. L’impicciona col berretto a cuoricini e gli scarponcini col pelo finto avrebbe vinto uno dei più importanti premi letterari. Una del suo palazzo, una balena pettegola che lo spiava dalla strada, scrittrice. Un contatto che avrebbe potuto cambiargli la vita, se solo… se la Fede non fosse tornata proprio in quel momento, se non ci fosse stato quel ridicolo sciopero all’università, se avesse lasciato in casa quell’inutile mattone, se lei non fosse venuta alle sue spalle a controllare cosa stesse facendo davanti a quella porta…
Si guarda intorno perso, in strada i passanti sembrano tutti sogghignare, le auto suonare tutte insieme il clacson in un unico grande coro di derisione. Combinazioni cosmiche, destino, casualità, un vortice incontrollabile. Senza pensare disegna una zeta, quasi una esse come Strega, sui puntini del codice d’accesso. E il telefono di Rosa di Teresa si illumina. Quanto siamo tutti stupidi, pensa disperato.
Cara Rosa, a che punto è il tuo manoscritto? Sai che qui non vediamo l’ora di ricevere almeno un estratto.
Caro Giulio, procede. Scrivo, leggo, verifico. Ti prego di concedermi ancora due settimane di tempo per una revisione finale.
Cara Rosa, inutile ricordarti che ci sono programmazioni e tempistiche. Vada, eccezionalmente, per le due settimane, e ricordati che aspettiamo trepidanti.
Ti ringrazio di cuore, caro Giulio, stai certo che non mancherò all’appuntamento.
Un manoscritto. Un calore istantaneo che dallo stomaco si espande in testa, infiamma le orecchie. Manca solo la revisione finale. Le chiavi del quarto piano sono appoggiate lì, sul tavolo davanti a lui. Le mette a fuoco, sono le nove del mattino, fuori la giornata è nebulosa, nella sua mente l’orizzonte è improvvisamente limpido. Doccia, caffè l’intera moka da tre, zaino grande, guanti. E chiavi. Tre piani di scale in un palazzo in cui via via sono morti tutti gli inquilini dei tempi in cui sua madre non la finiva più di chiacchierare per le scale di tutto e niente con questa e quell’altra. Chi era arrivato dopo non si era mai preso la briga di salutare, gente da ascensore mai vista né sentita.
La porta si apre silenziosamente. Fa appena in tempo a richiuderla che un gigantesco gatto nero gli corre incontro miagolando stridulo.
“Ciao gatto”, ride, “bella fortuna averti trovato”. Ride come un matto, come non faceva da anni, isterico come uno che ha frenato un secondo prima dello schianto. La palla di pelo nero torna indietro nel corridoio, si ferma, lo guarda, riparte, a versi aspri lo porta in cucina fino alla ciotola vuota su cui una grossa mosca ronza senza sosta.
“Fame, eh? Adesso trovo tutto, non fare casino. Poi vieni con me”. Nel frigo c’è una scatoletta gourmet gusto salmone aperta, un pacchetto della macelleria, marmellata d’arance amare, vaschette con verdure e un sacchettino della farmacia con un ansiolitico, stessa confezione di quello che usava sua madre.
Sistemato il gatto, vaga per le stanze. Pare un piccolo museo di anticaglie romantiche, mobili barocchi, specchi con la cornice dorata, tende di velluto, pizzi siciliani su tavolini in radica, cuscini ricamati su divanetti imbottiti, lampadari di cristallo, tutto perfettamente lucido e in ordine. Pensa alla topaia della Fede, alla decorosa banalità di casa sua, allo squallore del quartiere oltre quei muri, al berretto coi cuoricini. Cosa era venuta a fare qui questa nobildonna camuffata da portinaia, la vincitrice di un premio Strega? A studiare la vita dei perdenti?
Soggiorno, camera da letto e nell’ultima stanza in fondo al corridoio, lo studio. Una libreria lungo la parete alta fino al soffitto, un tavolo di lavoro in legno scuro, il computer e accanto una cartelletta con scritto: “Da consegnare”. Mette tutto nello zaino, anche il groviglio di cavi e i libri ordinatamente impilati a un lato della scrivania, su una copertina legge Rosa Di Teresa. Cerca nella libreria finché non trova tutta la fila con le sue pubblicazioni, sono dieci, le prende tutte. In cucina infila scatolette e crocchette e piano anche il gatto stordito dal tranquillante. All’ultimo si ricorda della sabbia per la lettiera e si caccia il pacco sotto il braccio. Dovrà tornare per svuotare il frigo e staccare la corrente. Ci saranno mille cose cui pensare, infinite complicazioni che non aveva minimamente previsto. Scende due gradini alla volta e si chiude in casa, deciso a dormire per giorni come il gatto che porta sulla schiena.
Una suoneria sconosciuta lo sveglia alle sette di sera, è il cellulare di Rosa di Teresa a squillare imperterrito. Solleva il gatto dalle sue gambe, lo mette in mezzo ai cuscini caldi e gli gratta il muso nero finché non socchiude due diffidenti occhi gialli. Bravo Gatto, mi sembri a posto. Intanto il telefono ha smesso di suonare, sul display legge un nome: Libreria Corso Narrativa. Un attimo dopo compare un messaggio:
“Ciao Rosa, non ti abbiamo più sentito, spero tutto bene. Ti volevo solo ricordare che ti aspettiamo mercoledì prossimo in libreria per la tua lezione. Attendiamo conferma. Un abbraccio.”
Il pensiero lo fulmina all’istante: sono loro, gli Origliati. La libreria, il mercoledì, non può essere un caso. Aveva stampato il programma delle lezioni, va al tavolo alla finestra a prenderlo e legge “Lezione 8 – Rosa Di Teresa – Personaggi, ceti sociali, luoghi…”.
“Carissimi, scusatemi davvero, ma sono totalmente afona e non posso rispondere al telefono, né tantomeno, come potete facilmente intuire, tenere una lezione, purtroppo. Sono infinitamente dispiaciuta, spero di non causarvi troppi inconvenienti. Prenderò un lungo periodo di riposo per tornare in forze. Certa che riuscirete a trovare chi mi potrà sostituire più che degnamente, un abbraccio”.
“Carissima Rosa, ci dispiace moltissimo e ci auguriamo che tu ti possa rimettere al più presto. Non preoccuparti, in qualche modo faremo, tu pensa solo a riposarti. Ti aspettiamo presto”.
“Col cazzo, gente”, dice lentamente, “la Rosa dello Strega non tornerà. Anzi, annullerà tutti i vostri fottuti appuntamenti e si ritirerà dalla vita pubblica neanche fosse Greta Garbo, vero Gatto?”. Quanto tempo era che non parlava ad alta voce?
“Vedremo con chi mi sostituiscono…”, ridacchia, “adesso però dobbiamo sistemare un po’ di cose”.
Nelle ore che seguono, setaccia il cellulare e il computer da cima a fondo, legge ogni messaggio, chat o e-mail, ricostruisce lo storico di ogni contatto, disdice tutti gli appuntamenti in agenda.
“Obbligata per motivi di salute, mi sono trasferita in un luogo incantevole, molto, molto lontano dalla confusione che noi tutti conosciamo fin troppo bene. È nelle mie intenzioni rimanervi a lungo, forse anche per sempre, chi lo sa, la vita è così piena di sorprese. Se necessario risponderò per e-mail. Certa di potere contare sulla vostra discrezione, un caro saluto.”
“E ora, signori miei, carissimo Giulio, a noi. Vediamo il sublime manoscritto. Vieni qui Gatto, che si legge”.
La lettura si rivela un indicibile tormento. Una parola dopo l’altra, la sua rabbia monta lenta e continua. È la sua storia, ma il protagonista non è il macellaio. Mentre legge, gli pare di vedere la Strega aggirarsi per la strada, guardare verso il primo piano, annusare l’aria, ascoltare ogni chiacchiera e sera dopo sera confezionare nel suo nido dorato il personaggio in cui l’ha imprigionato. Impietosa. Perché è lui, senza ombra di dubbio. Come aveva osato? Come aveva potuto pensare di farla franca?
Senza nessuna empatia racconta di un perdente confinato alla finestra del quartiere desolato, del tutto ignorato dal mondo super-tonico, dinamico e creativo a pochissima distanza da lì.
Bastarda.
Un povero illuso innamorato di una studentessa candida venuta ad abitare in quell’anonima periferia.
Innamorato? La sua ispirazione… così bella, leggiadra, solare. Era passata a mezzo metro dal mattone… Avrebbe mai avuto davvero il coraggio di ucciderla?
Un frustrato dai denti aguzzi che la uccide quando lei, laureata a pieni voti e con un’offerta di lavoro in tasca, decide di andarsene dal quartiere.
Se ne va? Che ne sapeva la Strega? … il suo raggio di sole, e sì, la Fede se ne sarebbe andata. E lui insieme con lei.
Scrive che l’ha strangolata. Senza raccontare la scena, si deduce dai segni sul collo della vittima.
Rosa di Teresa dello Strega, sibila tremante di rabbia, tu mi hai usato, spiato, ingannato. E anche condannato. Tu meritavi di venire murata viva, con due buchi nel muro da cui guardare in preda alla fame una cantina di periferia vuota, senza nemmeno una vecchia bicicletta nell’angolo. Così avresti capito davvero cos’è questo ceto sociale avvilito, questo luogo tormentato… quest’anima lacerata dalla frustrazione, dalla rabbia e la solitudine che descrivi così magistralmente.
Nella mente si accavallano domande senza fine. Era davvero stato un caso che lei scendesse con l’ascensore il giorno che lui stava quasi cadendo sulle scale per correre incontro alla Fede? E perché era alle sue spalle proprio nel momento in cui era uscito sconvolto dal suo orribile appartamento? Che fosse continuamente a spiare pure lei dalla finestra tre piani sopra di lui? Cosa aveva intuito? Cosa si era immaginata? Che pensasse di proteggere una giovane innocente oppure era solo alla ricerca di un senso, di una svolta improvvisa, per la sua storia?
Scaraventa un bicchiere contro la parete, il gatto scappa miagolando.
Gli è chiaro che non può inviare un manoscritto in cui lui stesso è l’assassino. Scritto in terza persona oltretutto… impossibile. Ha lavorato mesi per addossare la colpa della morte della Fede al macellaio, già, come la Rosa aveva fatto con lui. E la Fede è viva.
Anche la Strega lo è ufficialmente. Per ora.
Un assassino senza morta, una morta senza assassino, c’è una sola soluzione.
La maledice altre mille volte, mentre pagina dopo pagina modifica il manoscritto. Al giovane frustrato sostituisce un vecchio ignorante, il macellaio. Un uomo grezzo e presuntuoso, un collerico che arricchitosi negli anni, abituato a comandare, a prendere e non essere contraddetto si innamora di una donna che lo rifiuta. Non una giovane e ambiziosa studentessa, ma una raffinata intellettuale. Una nobildonna che senza timore lo pone difronte a tutti i suoi limiti. Impietosa. La uccide con un violentissimo colpo in testa, raccontato nei dettagli, con tutto il panico e l’adrenalina autentici dell’assassino.
Una mattina di sole, al tavolo alla finestra in attesa che la Fede esca di casa per andare in università, il manoscritto per gli Origliati è pronto per la consegna. La versione originale della Strega dei pizzi cestinata, il cestino svuotato. Allo sbattere del portone, alza lo sguardo verso la strada e vede il macellaio, sta correndo fuori dalla bottega chiamando la Fede. Da sotto la sua finestra sbuca la chioma bionda raccolta in una lunga treccia. L’autobus s’inchioda in mezzo alla via per farla attraversare, poi lei sparisce dalla sua visuale. Quando finalmente quello riparte sgasando, lo vede gesticolare, scorge la Fede scuotere la testa, allargare le braccia e allontanarsi lungo il marciapiede. Il suo sguardo segue la treccia che rimbalza sullo zainetto fino all’incrocio, poi torna verso la bottega. Fermo davanti alla sua vetrina, il macellaio lo sta guardando torvo.
“Ah sì?”, la mano sulla tastiera, schiaccia Invio e la versione rivista del manoscritto di Rosa dello Strega, il capolavoro che gli aprirà le porte all’Olimpo degli scrittori, gli porterà fama e ricchezza, s’invola a suo nome verso gli Origliati.
“Ma gliel’ho già detto stamattina, non ci ho proprio fatto caso”.
“Neanche sapete cosa vi capita intorno, voi giovani. Comunque, fammi il favore di accompagnarmi su che provo a suonare direttamente alla porta. È impossibile che si sia dimenticata di ritirare la consegna della settimana”. “Sarà partita, no?”
“Me l’avrebbe detto di sicuro”.
“Ma magari, chennesò, le è morto un parente, si è ammalata la mamma, non ci avrà pensato”.
“Non l’ho vista partire, ti dico. E poi c’è anche il gatto”.
“Ma lei mica guarda il portone dalla mattina alla sera! E il gatto, si chiama Ulisse mi ha detto una volta, se lo sarà portato via. Non ha trovato il numero di telefono?”
“Non ancora, devo chiamare tutti i numeri non salvati, sono un mucchio, praticamente non ne ho mai salvato uno, tanto la gente passa a ritirare. Facciamo prima a suonare”.
“Può andare su anche da solo, sta al quarto piano”.
“Preferisco avere un testimone”.
“Un testimone di cosa? Mica apre se non c’è. E neanche se è morta. Senta, posso anche venire fin su, poi però mi lascia stare con questa storia, ok?”.
Tosta la Fede, si difende con le unghie e con i denti, come aveva immaginato. Con l’orecchio incollato alla porta, segue la discussione a tutto volume del piano di sotto. Aveva visto il numero del macellaio sul telefono della Strega, di un ordine settimanale non aveva trovato traccia. Avrebbe mandato un messaggio.
“Prendo il telefono e arrivo”.
Li sente passare davanti alla sua porta in silenzio. Dopo qualche minuto, lo scalpiccio di chi scende veloce.
“Gliel’avevo detto che era inutile”.
“Non c’è neanche il gatto”.
“Si chiama Ulisseeeeee!”
In quel momento una palla di pelo nero gli schizza tra le gambe miagolando come indemoniata. E i passi sulle scale si fermano.
2 risposte su “Ulisse”
Bellissimo!
Grazie!