
di Lorenzo Pedrazzi
Mi chiamo Nanami Kimura, ma il nome che vorrei ricordaste è quello di mio padre: Masanobu Kimura.
Nel nostro butsudan c’era un ihai di legno nero dove il suo nome campeggiava in ideogrammi dorati, e ogni giorno gli rendevo omaggio con qualche piccola offerta di fiori e cibo, o raccontandogli le mie piccole avventure quotidiane. Fin dalla sua morte – all’epoca avevo solo dodici anni – la figura di papà è rimasta legata a quell’altare votivo, cui sussurravo parole gentili al termine di ogni giornata. Gli confidavo i miei risultati sportivi e scolastici perché sapevo che ne sarebbe andato fiero, mentre le orecchie tese di mia madre ascoltavano ogni parola dalla cucina. Ma quando lo tsunami del 2011 ha colpito Kesennuma, è cambiato tutto.
Mio padre era un uomo quieto, che preferiva esprimersi per mezzi sorrisi e cenni del capo.
Amava il silenzio, e lo spazio con cui riempirlo. Anche per questo, in casa nostra c’era solo l’essenziale: un piccolo divano per me e mia madre, un tavolo, due sedie, pochissime suppellettili, qualche giocattolo, un paio di elettrodomestici, un letto matrimoniale nella loro camera e uno singolo nella mia. Papà non si sedeva mai, nemmeno per mangiare, e non conservava gli abiti vecchi: ogni anno ne comprava di nuovi, semplici ed economici. Il suo colore preferito era l’azzurro.
Esisteva un unico momento della giornata in cui si concedeva di sedersi, ed era quando andavo a dormire. Con il viso affondato nel cuscino, tra le nebbie del dormiveglia, lo sentivo che si adagiava sul margine del letto e mi posava una mano sulle gambe. «La mia piccola gazzella…» sussurrava mentre le accarezzava sopra la coperta, dalle ginocchia fino alle caviglie. Cullata dalle sue mani e dalla sua voce, scivolavo nel sonno senza nemmeno accorgermene.
Ho sempre avuto le gambe lunghe e snelle, quindi papà diceva che ero “la sua piccola gazzella”, e mi aveva incoraggiato fin da piccola a praticare l’atletica. Lui era un uomo d’ingegno, progettava piccole imbarcazioni per i cantieri navali di Kesennuma, e adorava l’idea che avessi trovato una vocazione puramente fisica. Ogni martedì e venerdì usciva dai cantieri alle quattro del pomeriggio e veniva a prendermi agli allenamenti di corsa, salto in lungo e salto triplo. Mi esercitavo in una pista di periferia, ai piedi delle colline che cingono la città, dove una bruma delicata scendeva dalle alture verso sera per tonificare le nostre membra affaticate. Un martedì di fine aprile, però, rimasi ad aspettarlo più del solito, seduta su una panchina con il borsone ai miei piedi. Maeda, il mio allenatore, venne da me con uno sguardo distante, raccolse il borsone e disse che mi avrebbe accompagnato a casa lui. Non disse nulla durante il tragitto, e nemmeno io. Restai per tutto il tempo a testa bassa e con le mani raccolte in grembo, lanciando rapide occhiate al paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. A casa trovai mia madre in lacrime, seduta sul divanetto con la schiena curva e un fazzoletto bianco tra le mani. Singhiozzava, circondata da mia zia, mia nonna, e alcuni vicini.
Maeda andò a dirle qualcosa, poi mi salutò posandomi una mano sulla spalla: mi parve strano, perché di solito non mi toccava mai.
Di lì a pochi minuti scoprii che mio padre era morto quel pomeriggio. Il mare si era ingrossato, e un’onda anomala lo aveva trascinato in acqua mentre stava raggiungendo la sua auto. Non era un buon nuotatore, ma non aveva importanza: la corrente sarebbe stata troppo forte per chiunque. A ucciderlo fu l’urto contro i piloni massicci del pontile su cui stava camminando. Avevano ritrovato il suo corpo che galleggiava tra le barche ormeggiate, come se il mare si fosse stancato di lui.
Quell’immagine, pur essendomi stata riferita solo a voce, mi rimase in testa molto a lungo. Il corpo esile di mio padre, la camicia azzurra rigonfia sulla schiena, le membra abbandonate sulla superficie oleosa dell’acqua: così me lo figuravo, nascosto fra gli ormeggi, tranquillo e dignitoso anche nei suoi ultimi istanti di vita. Non so perché, ma spesso mi chiedo come se la sarebbe cavata di fronte allo tsunami: se sarebbe stato fra i primi a morire, lì nel suo studio al cantiere, o se in qualche modo si sarebbe salvato. Mi dà conforto il pensiero che non abbia dovuto assistere a un orrore del genere.
Era un venerdì pomeriggio quando il maremoto travolse Kesennuma, e ovviamente il porto fu il primo a cadere. Io e mia madre ci salvammo perché quel giorno avevo gli allenamenti, e lei era venuta ad assistere: ci bastò salire sulla collina non appena fu dato l’allarme – il percorso inverso rispetto alla bruma serale – e da lassù potemmo vedere tutto.
Restammo pietrificate.
Le mani premute sulla bocca, circondate da altre persone che urlavano e singhiozzavano, osservammo l’onda dilagare sulla terraferma con una facilità scioccante, irridendo la presunta solidità delle costruzioni umane. Palazzi sradicati dalle fondamenta, manti stradali estirpati dal suolo come le croste di vecchie cicatrici, alberi frantumati o ammassati gli uni sugli altri. Le navi e le automobili, trascinate ovunque come giocattoli, sembravano mosse dalla mano invisibile di un bimbo capriccioso. D’improvviso rammentai Susanoo, il dio dei mari e delle tempeste che tanto mi aveva affascinata da piccola, e rabbrividii al pensiero della sua ira.
Quando ci permisero di tornare a casa – o a quello che vi rimaneva – il panorama si rivelò ancora più spaventoso. Della città era sopravvissuto ben poco, e l’edificio in cui abitavamo era ridotto a un tenue perimetro che ne tracciava le fondamenta. Lo tsunami aveva spazzato via tutto, compreso il butsudan con cui per anni avevo celebrato il mio defunto padre. Tutt’intorno regnava una desolazione raggelante, piatta e omogenea. C’erano solo detriti, nient’altro. Impossibile riconoscerne la provenienza. Il silenzio, turbato solo dal vago scalpiccio di chi rovistava tra le macerie, affondava nelle orecchie come una lama.
In un certo senso, io e mia madre fummo più fortunate di altri: potevamo stare dalla nonna, che viveva in una casa riparata dalle colline non lontano da Kesennuma. Molti nostri concittadini, però, non avevano parenti in grado di ospitarli, e non potevano permettersi niente di meglio degli alloggi temporanei, file interminabili di casette prefabbricate dove la gente cercava un surrogato di normalità.
Gli spettri dei loro cari, però, sembravano tormentare i superstiti ovunque andassero.
C’era chi sosteneva di vedere un figlio, un genitore o un altro familiare nelle pozze di acqua che punteggiavano la città, oppure nelle schegge di vetro che un tempo erano state le finestre dei palazzi. Altri raccontavano di aver visto figure smarrite che si aggiravano fra i detriti, oppure giù al porto, ma esse sparivano nel nulla non appena si voltava lo sguardo. Anch’io, esplorando i resti della nostra casa, ebbi l’impressione di vedere la sagoma di mio padre con la coda dell’occhio, proprio dove un tempo c’era il mio letto, ma l’archiviai come una pura suggestione.
Eppure, alcuni erano talmente perseguitati da quelle presenze che si recavano al tempio zen del reverendo Sasaki, nell’entroterra, per condividere le proprie storie e farsi “esorcizzare”. La nonna ci raccontava queste vicende durante i pasti, citando conoscenti e vicini di casa che avevano ricorso all’intervento del sacerdote. Noi l’ascoltavamo con vaga condiscendenza, soprattutto mia madre, che è sempre stata una donna molto scettica. Non davamo molta importanza alle dicerie su fantasmi e possessioni, volevamo soltanto ritrovare un minimo di stabilità in quel clima tetro.
Almeno, questo è ciò che pensavamo all’inizio.
A pochi giorni dal nostro trasferimento, infatti, accadde una cosa che ci fece cambiare idea. In quel periodo mia madre dormiva con la nonna nel letto matrimoniale, mentre io occupavo la stanza che un tempo era stata sua, da ragazza. Una notte andai a dormire con i muscoli indolenziti per gli allenamenti – era venerdì – e mi abbandonai esausta sul materasso, le gambe stremate.
Paradossalmente, la stanchezza rendeva il sonno ancora più difficile: la mia mente era tutta concentrata su quella sensazione di sfiancamento che mi appesantiva gli arti, e non riusciva a distrarsi. Distesi le gambe per distribuire meglio il peso sul materasso, quando all’improvviso mi parve di sentire una pressione sul margine destro, come se qualcosa si fosse appoggiato in punta di letto. In principio lo ignorai, poteva essere uno scherzo del dormiveglia… ma nel giro di pochi secondi cominciai ad avvertire anche un tocco leggero attraverso le coperte, che partiva dalle ginocchia e si riverberava fino alle caviglie. Ebbi uno scatto repentino, ritirai le gambe e accesi la luce, mettendomi a sedere: non c’era niente, la stanza era vuota. Mi batteva forte il cuore, ma si calmò dopo qualche respiro profondo, una tecnica che utilizzavo spesso prima delle gare o di un’interrogazione a scuola.
Non appena spensi la luce e riprovai ad addormentarmi, però, quel contatto si rifece vivo, ancor più nitido e familiare. Quanti anni erano passati? Almeno cinque. Ormai ne avevo diciassette, ero un’adolescente in procinto di finire le medie superiori… eppure, non avevo dimenticato le carezze serali di mio padre, lievi e cadenzate, che un tempo mi cullavano fino al sonno. Ne sentivo la mancanza, e mi chiesi se non fosse la carenza d’affetto a farmi immaginare quella sensazione in modo così realistico.
Aprii gli occhi, stavolta senza accendere la luce.
Sul bordo del mio letto scorsi una figura dai contorni indefiniti, un corpo che aveva certamente volume, ma i cui margini si disperdevano nel buio. Sembrava esserci e non esserci allo stesso tempo. Intanto, le carezze proseguivano imperterrite, solo che adesso ogni contatto mi gelava il sangue. Non riuscivo a muovermi, tanto ero spaventata. Cercai di dire qualcosa, ma ero senza voce.
In compenso, la sagoma oscura emise una vibrazione roca e abissale, da cui riuscii a distinguere alcune parole che conoscevo fin troppo bene: «La mia piccola gazzella…»
Il suono mi ridestò dal torpore, quindi mi alzai di scatto e fuggii nella camera matrimoniale, dove la nonna e mia madre dormivano ai versanti opposti del letto. Le svegliai e raccontai tutto, ma la mamma non mi prese sul serio: disse che avevo solo fatto un brutto sogno, e m’intimò di tornare a dormire. La nonna invece sembrava preoccupata, ripeteva che avrebbero dovuto portarmi dal reverendo Sasaki l’indomani stesso per farmi «esorcizzare». Nonostante fossi convinta di ciò che avevo appena vissuto, e avessi piena fiducia nei miei sensi, quella dell’esorcismo mi parve un’idea troppo ridicola. Pretesi però di dormire con loro, non avevo intenzione di stare da sola quella notte.
«Non sei più una bambina» rispose mia madre, memore di quando gli incubi mi spingevano a chiedere asilo nel letto dei miei genitori. Fortunatamente la nonna intercedette per me, e la mamma accettò dopo una breve insistenza. Doveva avermi vista davvero scossa. La loro compagnia mi tranquillizzò, e il letto era abbastanza grande da ospitarci comodamente tutte e tre.
Un attimo prima di addormentarmi, però, sentii ancora quel tocco delicato sulle gambe, come una strana brezza che spirava tra il sonno e la veglia.
Le visite dell’ombra – così l’avevo soprannominata – proseguirono anche le notti successive.
Ogni volta mi rifugiavo nella camera matrimoniale, e ogni volta mi ritagliavo uno spazio nel lettone, ignorando i mugugni di mia madre. In testa mi risuonavano sempre quelle parole, «La mia piccola gazzella…», che l’ombra pronunciava con una voce monotona e distante. Talvolta bastava che mi assopissi per qualche momento, anche durante il giorno, e subito udivo quel tono disumano, anticipato da un pizzicore che dalle ginocchia scendeva fino alle caviglie. Se dicevo alla mamma che quella presenza, o qualunque cosa fosse, mi ricordava mio padre, lei chiudeva il discorso prima ancora che potessi continuare. «Passerà» diceva. «È solo il trauma del maremoto che ti è rimasto in testa.»
Speravo con tutto il cuore che avesse ragione, ma non passò. Le apparizioni si protrassero per giorni, così come le mie fughe notturne nel letto della nonna, in lacrime. Fu lei a insistere perché andassi dal reverendo Sasaki, esasperata e spaventata dai miei racconti. Ne parlò a lungo con la mamma, che restò ad ascoltarla facendo interminabili sospiri e scuotendo lentamente il capo, più in segno di stanchezza che di diniego.
Oltre che scettica, mia madre era anche una donna pragmatica. Revisionava polizze per una piccola agenzia di assicurazioni, ed era abituata a contestualizzare i problemi, trovare le connessioni interne e individuare eventuali pecche o sotterfugi. Di conseguenza, una volta appurato che il problema non si sarebbe risolto da solo, doveva aver pensato che la soluzione più logica fosse quella di assecondare le superstizioni di mia nonna, sperando che io stessa potessi trarne giovamento.
Così, alla fine, si rassegnò ad accompagnarmi dal sacerdote. Era un sabato di metà aprile, periodo in cui l’aria tiepida e il sole alto rendevano ancora più assurde le mie storie di fantasmi.
Dopo circa mezz’ora di viaggio in auto, il tempio ci apparve dalla strada come una pagoda bassa e graziosa, con il tetto bruno che catturava la luce del pomeriggio. Parcheggiammo la macchina prima di entrare nel giardino, dove si poteva accedere solo a piedi, e sentimmo la ghiaia del vialetto scricchiolare sotto le scarpe mentre ci avvicinavamo all’entrata. Un signore tarchiato stava uscendo dal tempio proprio in quell’istante: lo vidi girarsi sulla soglia d’ingresso e rivolgere un inchino verso qualcuno all’interno, mormorando un timido ringraziamento con voce aspirata; poi si avviò per la sua strada, accompagnato dal rumore sempre più flebile dei suoi passi sul sentiero.
La persona cui stava rivolgendo i suoi ringraziamenti era il reverendo Sasaki, che ci accolse con un’espressione distesa e gli occhi sorridenti, pacifici. Anche mio padre aveva spesso quello sguardo. Sasaki però era più anziano: rughe sottili si dipanavano a raggiera dalle sue palpebre, e la chioma candida stava cominciando a diradarsi. Accennò con il capo al signore di prima, appena visibile in fondo al giardino. «Quell’uomo è stato incauto, ma ora il suo cuore è molto più leggero» ci disse. Non sapevamo a cosa si riferisse, ma prima ancora che potessimo chiedere spiegazioni – col rischio concreto di apparire indelicate – il reverendo ci invitò a sederci sul tatami e ci offrì del tè.
In quel clima rilassato, gli raccontai tutto: la morte di mio padre, il butsudan a lui dedicato, il maremoto, e infine le apparizioni che mi perseguitavano da giorni. Mia madre sedeva a fianco a me in silenzio, le mani giunte in grembo, mentre Sasaki ascoltava e annuiva. Quando finii, sorrise tranquillo e non diede alcun segno di stupore, come se per lui fosse tutto normale.
«Sono giorni travagliati, questi» ci disse. «La gente non sa come reagire. Alcuni si comportano in modo avventato, non rispettano i luoghi dove sono morte tante persone… come quell’uomo che avete visto poco fa.» Fece una piccola pausa per sorseggiare il suo tè, ancora fumante. «E allora i defunti trovano il modo di vendicarsi, si ribellano all’affronto. Oppure vagano smarriti, ancora scioccati dalla violenza della loro dipartita.»
«Ma mio padre non è morto nello tsunami» osservai con un filo di voce.
«Certo» concesse lui guardandomi negli occhi, sempre con quel sorriso. «Ma tu stessa mi hai detto che avevi l’abitudine di omaggiarlo ogni giorno, davanti al suo butsudan.»
All’improvviso capii. Lo tsunami aveva spazzato via tutto, la nostra casa e quello che si trovava al suo interno. Il butsudan, le offerte votive e l’ihai erano stati disintegrati dalla forza dell’acqua.
Avevo smesso di celebrare il ricordo di mio padre… e lui, privato di questo conforto, era tornato da me in cerca di affetto.
«Vedi, in te c’è la sua carne, nelle tue vene scorre il suo sangue» proseguì Sasaki. «Tu sei il suo appiglio nel mondo dei vivi, e il suo spirito disorientato si è fatto strada fino al ricordo più intimo che aveva di voi.»
Mia madre cominciò a singhiozzare. «Chiedo scusa» sussurrò mentre cercava un fazzoletto nella borsa.
«Non si preoccupi. Gli restituiremo la pace.»
Il reverendo mi chiese di stendermi sul tatami a occhi chiusi, poi fece serrare le porte. La grande stanza scivolò nella penombra, e io provai una vaga sonnolenza che mi intorpidiva le membra.
«Che cosa vuole fare?» chiese mia madre.
«Libereremo sua figlia da questo peso.»
«Servirà a darle conforto?»
«Certo. Non solo a lei, ma anche a suo padre.»
Sbirciai la mamma dalle palpebre socchiuse, e la vidi corrugare la fronte: dal suo punto di vista, l’utilità del rituale doveva essere soprattutto simbolica. Comunque, si inginocchiò al mio fianco e mi prese la mano, accarezzandone il dorso con grande dolcezza. Io intanto ero sempre più assonnata – dormivo poco in quel periodo – e quasi non mi accorsi del solito formicolio sulla gamba. Eppure c’era: potevo sentirlo distintamente mentre mi accarezzava le ginocchia, gli stinchi e le caviglie.
Con gli occhi ridotti a fessure, mi parve di scorgere la sagoma dell’ombra che si confondeva nel buio: ricordava davvero mio padre, il suo corpo asciutto seduto sul mio letto quando mi dava la buonanotte.
La mamma ebbe un sussulto, mi strinse forte la mano. Lo vedeva anche lei.
Trattenni il respiro quando il reverendo suonò il tamburo del tempio, prima di recitare il sutra del cuore. Sentirlo declamare l’inconsistenza di tutti i fenomeni ebbe un effetto rasserenante su di me… come se nessuno di noi, compreso quel che restava di mio padre, avesse nulla di cui preoccuparsi.
«Masanobu» disse infine Sasaki. «Il mare si è preso la tua vita, e il mare ti ha riportato indietro. Ma ora questo non è più il tuo posto. Tua figlia si ricorda di te. In lei c’è la testimonianza del tuo passaggio sulla Terra… in lei c’è il tuo retaggio fra i vivi. Se è un mondo freddo e oscuro quello che vedi attorno a te, come gli abissi del mare che ti ha inghiottito… tu cerca la luce.»
Il formicolio cominciò ad attenuarsi, diventò come il tocco evanescente di una piuma. Immaginai mio padre camminare sul fondo del mare, e poi aggirarsi fra i detriti di Kesennuma in cerca della sua casa, circondato da spiriti ugualmente disorientati che frugavano tra le scorie della loro vita mortale.
«Segui la luce, Masanobu» ripeté il sacerdote. «Questo è il tuo nome, e noi ce lo ricordiamo.»
Il tamburo suonò ancora, ne percepii il riverbero sulla punta delle dita. Forse fu solo suggestione, ma non appena il formicolio sparì, mi parve di sentire un’ultima volta quella voce lontana: «La mia piccola gazzella…»
E fu allora che mi tornarono alla mente le istantanee della mia vita con papà, lampi mnemonici che mi sfuggivano dalle mani come il filo di un aquilone, ma che cercavo di stringere al petto per non farli volare via.
Quella volta che mi portò a Tokyo e la folla di Shibuya mi terrorizzò, ma lui disse che nemmeno un oceano di persone lo avrebbe tenuto lontano da me.
Quella volta che togliemmo le rotelle alla mia prima bicicletta, e la sua mano mi guidò nel vento finché non imparai a pedalare da sola.
Quella volta che ruppi il modellino di una barca nel suo studio, e lui mi aiutò a ripararlo con una lacca dorata che lo rese unico e prezioso.
Quella volta che trovai un bombo intrappolato nella mia camera, scappai via spaventata e lui mi aiutò a liberarlo, spiegandomi la sua importanza in natura.
Quella volta che tornò a casa tardi dal lavoro e mi trovò ancora sveglia nel mio letto, il respiro
affannato per un brutto sogno, e rimase a vegliarmi finché non mi addormentai.
Quella volta che vinsi la mia prima gara, tagliai il traguardo e vidi che lui era lì, a incitarmi e applaudirmi, sempre presente, sempre lì, dove potesse rassicurarmi e proteggermi con la sua sola presenza, il suo sguardo quieto e i suoi modi gentili.
Mio padre.
Condivido questa storia perché il suo spirito possa contare sulla nostra memoria collettiva, e non si senta mai abbandonato nelle sue peregrinazioni ultraterrene.
Ora, nella mia casa c’è un nuovo butsudan a lui dedicato, sempre ricco di fiori, incenso e altre offerte, mentre il suo nome è tornato a campeggiare sulla superficie lucente di un ihai. Solo nelle notti di metà agosto, quando festeggiamo l’Obon e le nostre abitazioni sono addobbate a festa per i defunti, mi capita di sentire nuovamente il suo tocco discreto sulle gambe. Allora accendo una lanterna per il Tōrō nagashi e la affido al fiume, dove il bagliore di mille piccoli soli lo aiuterà a ritrovare la strada.
Glossario dei termini giapponesi:
Kaidan: storia di fantasmi
Butsudan: piccolo mobile a due ante, adibito alla commemorazione dei defunti
Ihai: tavoletta su cui è inciso il nome del defunto
Tatami: tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari modulari
Obon: festa di tradizione buddista in cui si commemorano gli antenati
Tōrō nagashi: cerimonia che consiste nel porre in un corso d’acqua delle lanterne di carta, ognuna delle quali rappresenta l’anima di un defunto