di Rita Barbieri
“Se non portavi abbastanza soldi erano guai. Non hai girato, dicevano i padroni, invece avevo girato tutto il giorno… la vita che abbiamo fatto, non ci voglio più pensare! A me, se mi dicono di tornare indietro non ci torno, no!”
“I miei sono dovuti partire. Mia madre spingeva la sua carretta per vendere. Io sono rimasto qui con i nonni che mi hanno dato tutto quel che potevano, pieni di preoccupazioni perché comunque non ero loro figlio… ma sono stato fortunato, c’è chi veniva lasciato a degli estranei…”
“Quando ho avuto un figlio l’ho dato nel piano laggiù, a una signora che si chiamava L., per un po’ di tempo faceva il matto… è stata dura, proprio dura. Ma come si faceva? Uno doveva andare a vendere… Io piangevo quando andavo via e piangevo quando ritornavo, che me lo prendevo quei due o tre mesi ma piangevo lo stesso… perché insomma, avevamo solo quello, poi sono i nostri figli… e quando dopo due anni me lo sono ripreso, la L. c’è rimasta male anche lei, credeva che ce lo lasciavamo ancora…”
“Anche questa ci è toccata… dovevamo avere solo un figlio per una, ne facevamo solo uno per quello che dovevamo subire quando lo dovevamo lasciare.”
“Ho fatto quindici anni di quei carretti lì… una vergogna… quando conoscevo i giovanotti… Mamma mia… una vergogna, un carrettino con le tende a righe… ogni tanto il carretto partiva, sbattevo contro il paracarro e buttavo giù tutta la roba… avevo un sacchettino per mettere dentro i soldi e la sera si tiravano fuori.”
Marianna non poteva sapere. Al contrario, negli anni in cui era bambina e adolescente nel suo borgo della Lunigiana, udiva sovente l’espressione l’è propi ‘na barsana per indicare una donna di fegato, che sapeva prendere decisioni non comuni per l’epoca, che aveva la stoffa per vendere, per gli affari, che aveva il coraggio di mollare i figli pur di fare fortuna, arrivare, una donna con le braghe, che aveva ascendente sul marito, insomma una donna ammirata e rispettata, che poteva andare a testa alta.
Basta! Da qui me ne devo andare. Non ne posso più. Zappare, vangare, accudire le bestie, le unghie nere, i calli sulle mani, vestita di stracci e zoccoli ai piedi. Voglio andarmene lassù, nel barsan, dove ci sono Marisa, Rosa, Dina, Elide. Loro sì che se la passano bene. Quando ritornano per San Rocco, sfoggiano ogni anno vestiti nuovi, il rossetto e le unghie dipinte. L’estate scorsa, Marisa aveva perfino un paio di occhiali da sole. Sembrava una vamp. I miei fratelli sono partiti, uno è andato in America, uno in Francia, l’altro in Svizzera. Anch’io voglio tentare la fortuna! I migliori se ne vanno! Solo Tullio è rimasto. Non ha carattere, è ancora attaccato alle sottane della mamma. Il torello lo chiamano, forte, attraente, gran lavoratore, resiste alla fatica più di un mulo, ma è un sempliciotto, non si fa troppe domande, vive alla giornata. Adesso ha pure uno scheletro di bicicletta. L’ha trovata in un fosso, mezzo arrugginita. Passa tutti gli avanzi di tempo attorno a quel trabiccolo. Non parla d’altro. È proprio tocco. Deve avere qualche morosa d’andare a trovare, almeno spero, sennò non si capisce. Sembra non chiedere altro alla vita: far funzionare quel rottame.
Io sono diversa. Tra un paio di mesi torna Marisa e le chiedo di portarmi via. Di lei mi fido. Qualche soldo per il treno ce l’ho. La mamma non può impedirmelo. Non sono neppure promessa. Angelo, dopo la guerra, non si è rivisto. Chissà che fine ha fatto! Ho solo diciassette anni. Non può pretendere che marcisca qui. Non voglio lavorare la terra tutta la vita. Non mi piace, rovina la pelle e la schiena. Non voglio ridurmi come lei, sempre vestita di nero, gobba e piena di rughe, vedova ancor prima di perdere il marito. Non ha visto niente del mondo. Sì e no, conosce appena i borghi qui attorno. Si sarà allontanata a dir tanto dieci o dodici chilometri e solo per mercati e per portare i viveri, durante la guerra, ai figli disertori, lassù sulle montagne che si vedono da qui.
Non mi ci ha mai portato su quelle vette, bellissime, bianche d’inverno, verdi d’estate. Rimango a bocca aperta quando il cielo è limpido e la loro linea, all’orizzonte, diventa nitida e imponente. I colori cambiano di continuo, secondo le stagioni e l’ora, l’argento del primo mattino, il turchese del giorno, il rosso della sera.
La mamma, che vita grama! Piccola e secca, con il fazzoletto del lutto in testa. Ha più di cinquant’anni e non sa neppure cos’è il cinema! Ha letto soltanto un po’ di Bibbia, il librone dorato del nonno, sempre sul comodino, e il giornale dei coltivatori diretti che arriva per posta. Non ha mai fatto il bagno nel fiume dietro casa, almeno che sappia io, e non ha mai visto il mare qui vicino, soltanto a una ventina di chilometri.
No, non voglio ridurmi come lei.
Prima faceva i mercati con papà, vendevano piatti e bicchieri. Poi, dopo la guerra, ha comprato i terreni, forse non se la sentiva di guidare il biroccio da sola, e si è condannata a rimanere infossata in questo pezzo di terra, sempre ricurva. Dorme quattro, cinque ore per notte. La festa deve accudire le bestie, galline, conigli, maiali, vacche e si alza sempre all’alba. Una galera! Non può mai perdere il controllo, sennò va tutto in malora. Tullio l’asseconda sempre, se compra altri animali, pezzetti di terra per ingrandirsi, se pianta altre vigne. Un’ossessione! Per cosa poi? Molta roba va a male, le uova, le mele, anche la farina e le patate finiscono spesso nel pastone dei maiali. A volte, nella stagione dei raccolti, quando bisogna correre senza sosta da un campo all’altro, Tullio urla come un matto contro di lei e contro i lavoranti a giornata. Sbraita e bestemmia, ma è per darsi un tono. Poi, appena riceve altri ordini, l’asseconda di nuovo, senza fiatare. Tullio è un coniglio, lei una donna forte, stimata, ma a me fa pena. I suoi svaghi sono la Messa della domenica, le processioni del patrono e della Settimana Santa, la siesta nei pomeriggi d’estate quando la canicola toglie il fiato. Allora si siede un po’, sulla sedia a dondolo, sotto l’ombra del bersò, profumato di uva fragolina, e chiude gli occhi.
Chissà, magari si diverte a mungere le mucche, a fare il formaggio, a mettere il pane a lievitare tutte le notti.
Io no, io non mi diverto. Mi sento soffocare. Mi piace ballare. Si, da queste parti di balere ce ne sono un mucchio, ma i giovanotti che sono rimasti qui sono i più “molli”, sfaticati e malvestiti, figli di mezzadri senza ambizioni. Puzzano d’aglio e cipolle. Morti di fame che aspettano i funghi e le castagne per mettere qualcosa di meglio sotto i denti. E d’inverno, quando la farina è finita, si accontentano di mangiare cavoli e patate. La mamma dice che la nostra è una famiglia perbene e che devo sposare un “buon partito”, ma da queste parti non esistono né principi né signori.
Magari nel barsan, forse. Ma non m‘importa degli uomini. Posso farcela da me. Lassù potrò anche andare a scuola. Ho soltanto la quinta elementare, ma ero brava e mi piace leggere.
Devo farmi coraggio, domani stesso affronto la vecchia.
Quella notte Marianna non riuscì a dormire. La più piccola di cinque fratelli, l’unica femmina, si faceva mille scrupoli a lasciare la madre sola con Tullio. D’accordo, era in forze, sana come un pesce, ma senza di lei, come avrebbe fatto? Sì, aveva qualcheduno che l’aiutava nei campi e anche un fittavolo che la ripagava con un po’ di raccolto e servigi, ma non era la stessa cosa.
“Se tuo padre fosse vivo morirebbe di crepacuore. L’unica figlia femmina che se ne va. Non ne hai bisogno! Lui era un commerciante come il nonno, il bisnonno era uno speziale e pure un saggio, tutti correvano da lui per consigli e aiuto. Sai cosa c’è scritto sulla tomba? Uomo savio e amato, il paese in suo ricordo. La nostra famiglia è sempre stata riverita. Durante la guerra abbiamo sfamato mezzo paese. Ti vuoi mischiare con le altre poveracce che scappano per fame? Sei da marito e invece, guarda lì, piena di grilli per la testa. Cosa devo fare con te? Per i tuoi diciotto anni darò una festa. Inviterò tutti i migliori giovani della zona.”
“Ma quali? Li fai fabbricare? Sono rimasti solo i pezzenti. E i miei fratelli allora? Perché non li hai fermati?”.
Il broncio di Marianna contagiò tutti, Tullio, i lavoranti, i vicini. Non mangiava quasi più e passava ore e ore sdraiata sul letto.
“Ho capito Marianna, vuoi proprio andartene. Contavo tanto sul tuo aiuto, ma pazienza”, le disse inaspettatamente un paio di settimane dopo. “Però non se ne parla di seguire le tue amiche. Chiederò un aiuto a Settimo e a sua moglie Iside. Loro sono lassù da un po’. Non proprio nel barsan, ma vicino, in Brianza. Sono come gente di famiglia, i suoi lavoravano per il nonno. Non mi diranno di no. Sei così giovane e il mondo è cattivo, pieno di pericoli. Vedrai, ti troverai bene, ti daranno una mano e io mi sentirò più tranquilla”.
Parla sempre male dei poveracci e mi affida a Settimo e Iside. Lui un brutto ceffo, un mezzadro senza arte né parte, viveva in quella catapecchia in mezzo ai boschi, è fuggito per via della miseria che lo divorava. Lei povera, ma benfatta e scaltra, poteva senz’altro pretendere di meglio, ma l’amore… si sa, è cieco. Piuttosto che rimanere qui, va bene lo stesso. Bisogna saper accontentarsi. Addio amiche! Adesso non vedo l’ora di partire. Ancora pochi mesi e sarò in Altitalia. Il sogno si avvera! Lavorerò giorno e notte fino a mettere su un’attività, un negozio tutto mio, magari di porcellane, come i nonni, così la mamma sarà contenta e, in poco tempo, si trasferirà da me. Felicità!
“Su, ragazze, su! Sveglia! Il sole è già alto, non perdiamo tempo! Chi dorme non piglia pesci!”
“Iside, ci lasci dormire ancora dieci minuti… Stanotte faceva caldo. La stalla era piena di mosche e zanzare. Ci siamo addormentate che era quasi l’alba”, risponde Marianna.
“Su fannullone, il lavoro non può aspettare! Settimo è già sul carro! Oggi il giro è lungo, ci sono tante cascine che aspettano le nostre maglie! E tu Marianna, fai la brava, sennò ti rispedisco da tua madre!”
Le ragazze, assonnate e spettinate, passano dalla stalla alla cucina “dei padroni”, uno stanzone con la stufa a legna che funziona anche d’estate e un tavolone dove, all’ora di cena, si riunisce la famiglia insieme alle lavoranti. Bevono il caffè fatto con i fondi, così lungo che sembra acqua sporca, e raccattano il fagotto della colazione: un pezzo di pane, una fetta di formaggio, una di salame, sottile come un’ostia, e un paio di susine.
Poi Marianna si strofina gli occhi e la faccia sotto il rigagnolo della fontana del cortile e si avvia verso il carro trascinando i piedi avvolti da un paio di sandali con suole e tacchi sempre più sottili. Si mette tra le ceste di biancheria, come le altre, e si lascia cullare dal dondolio del carro, dal rumore degli zoccoli del cavallo e dall’aria tiepida del primo mattino.
Oggi si sente fortunata. Non deve camminare a piedi per strade e viottoli pieni di polvere, fare chilometri e chilometri con le pesanti cavagne sulle braccia o sulla testa. Oggi può anche sfoggiare il capello di paglia per proteggersi dal sole. Settimo si volta e la guarda di sbieco con un sorrisetto viscido sulle labbra che scopre i denti storti e giallastri. È un omuncolo, basso e minuto, con un paio di baffetti radi e incolti. Avrà sì e no una quarantina d’anni. Una mezza tacca, un bifolco che cerca di tirarsi su portando in testa un cappello di feltro nero, sempre il solito, in tutte le stagioni. Dalla giacca a righe, sgualcita e troppo larga, spunta la catena argentata di un orologio appuntato al panciotto. La moglie, i capelli raccolti in uno chignon con delle grandi forcine di plastica marrone, indossa un grembiule scuro smanicato sopra il vestito di cotone chiaro. Ha cinque marmocchi, tutti maschi, le mancano tre o quattro denti davanti e dimostra almeno dieci anni in più della sua età.
Settimo ci prova con tutte le ragazze che gli capitano a tiro. Le raggiunge nella stalla dove dormono tra cavalli e mucche e, quando il giro richiede due o tre giorni e Iside è costretta a casa con la prole, dorme in mezzo a loro. Attacca a fare discorsi sconci e cerca di toccarle da tutte le parti. Alcune ragazze ridono come stupide. Marianna invece lo ignora, non lo degna d’uno sguardo e se ne sta zitta. Quando gli si avvicina, perlopiù ubriaco, lo sfida: “Sporcaccione, chi credete d’essere? Sarete il padrone della roba ma non delle lavoranti! Tenete le mani a posto o racconto tutto a vostra moglie. State attento! Quella piglia il bastone e vi fa nero, come la notte che vi ha beccato con la balia.” Settimo si scansa barcollando, va al centro della stanza sotto la luce fioca di una lampada ad acetilene, porta le mani alla patta, lo tira fuori e comincia a menarlo.
Partono risolini. Marianna lo provoca: “Ma non vi vergognate con quel “coso” piccolo e nero? Sembra una gatta pelosa (millepiedi), che schifo!”
“Ah sì? Lo sapevo che sei una poco di buono. Quanti ne hai visti, dì?”
“Quelli dei miei fratelli, al mattino, quando entravo in camera per svegliarli e rifare i letti. Loro li hanno lunghi così e bei ritti!”, reagisce Marianna indicando la misura con una mano sull’avambraccio.
Settimo si ritira in un cantuccio.
Al mattino le ragazze lo cercano per svegliarlo, sembra un fagotto gettato a terra. Ma quando qualcuna ci sta, allora non lo si trova. Se l’è portata fuori, in un campo oppure in una locanda, la stessa dove hanno cenato la sera prima.
Non mi aspettavo una vita così dura, infiniti chilometri sotto il sole o in mezzo alla nebbia, camminare tutti i giorni anche quando piove e nevica, con delle scarpe che ormai si aprono sul davanti. Li riparo, ma il giorno dopo si spaccano di nuovo. Il lavoro è tanto ma si guadagna poco. Devo trovare una soluzione e mettermi in proprio. Ci sono clienti affezionate, mi chiamano “terrona” ma mi aspettano con il caffè e una fetta di torta. A volte lo bevo seduta con loro, sotto i portici, fa parte del mestiere. Alcune sono curiose, mi domandano del mio paese, del mio dialetto, di quello che vedo e succede nei dintorni, altre mi raccontano le loro storie con i mariti, le liti con le cognate, gli aborti, gli innamoramenti, le gelosie. Mi sembra di essere un prete: loro si confessano e io li ascolto. Ci sono clienti che hanno figlie da marito. Ah, se potessi mettermi in proprio! Con tutte quelle doti, farei un mucchio di soldi! Ormai è quasi un anno che girovago per cascine e dormo in stalle e fienili, non mi ricordo un letto come si deve, mi sembra di essere una zingara, anzi peggio! Almeno a casa avevo il fiume e d’estate, quando l’umidità appiccicava la pelle, era facile lavarsi. Qua dobbiamo fare a turni nel mastello. Ce ne sono soltanto due e siamo una decina. A casa c’era anche il gabinetto a portata di mano. Ah se fossi brava come la mamma! In piedi, con le gambe divaricate, la pipì scende e si forma il rigagnolo che la terra assorbe subito. Come farà a non sporcarsi le gambe? A stare senza mutande? No, non ritorno al paese. Che figuraccia! Devo farcela! Fra un paio di domeniche l’Adalgisa mi porta a una festa da ballo da suo zio Egidio, anche lui delle mie parti. Ha fatto fortuna, è ricco e fa il giro con una Topolino familiare. Anche sua moglie, Liliana, è motorizzata. Un giorno l’ho vista in bicicletta, una cesta davanti sul manubrio, una dietro la sella, sul portapacchi issato sul parafango, una gran signora, ben vestita, una camicetta bianca dentro la gonna a pieghe, un paio di sandali neri con il cinturino sul davanti, degli orecchini che sembrano di corallo e i capelli ondulati dal ferro della pettinatrice. Beata lei! Non come la Iside, rovinata a furia di stare con quel brutto ceffo di Settimo. Erano degli straccioni morti di fame, con poco sale in zucca, e tali sono rimasti. Con tutte quelle bocche da sfamare!
“Ciao Marianna, come va? Ti voglio presentare un bel giovanotto, uno dei nostri, i suoi abitano a pochi chilometri da voi, cioè, da tua mamma. Si chiama Guglielmo”, fa la signora Liliana durante la festa da ballo.
Marianna arrossisce. “Gesù! Sono mesi che non mi taglio i cappelli. Speriamo non veda il rammendo sulla gonna! Come starò con il rossetto dell’Adalgisa?”
Davanti a lei un ragazzone alto e snello, lineamenti fini, un ciuffo di ricci castano chiaro, occhi verdi striati di marrone, come lo stagno di casa sua. La fissa. Indossa una camiciola azzurra, pantaloni color sabbia e scarpe di cuoio lustrissime. L’orchestrina attacca una mazurca.
“Balli?” chiede Guglielmo.
Un paio di settimane dopo, una sera a tavola, dopo il giro, Marianna si congeda da Settimo.
Iside strilla che non può piantarli in asso dall’oggi al domani e minaccia di non pagarle le tre settimane del mese. Lei ride a crepapelle, si rivolge alle ragazze, le invita alla festa di matrimonio con Guglielmo, tra un mese, raccoglie i quattro abiti nella valigia di cartone e sbatte la porta tra i pianti dei marmocchi agitati dalle imprecazioni della madre.
Più tardi confida all’Adalgisa:
“Domenica siamo andati ai baracconi, una zingara mi ha letto la mano, mi ha detto che avrò due figli e una casa grande con due balconi!”
Ce l’ho fatta! Adesso sono “padrona”. Finalmente un paio di scarpe comode e gli occhiali da sole. Ma voglio anche il mio giro. Guglielmo ha il suo, con la bicicletta, se lo tenga. Io continuerò con le mie vecchie clienti, non mi ci vuole niente a soffiarle a Settimo, quell’ubriacone donnaiolo senza cervello. Mi prenderò una carretta con due grandi ruote e sopra la biancheria ci metterò un telo cerato per ripararla dal sole e dalla pioggia e la spingerò con i due manici. Sarà facile, meglio di prima, che portavo tutto indosso. Le barsane che tirano la carretta, sono tutte “padrone” e, quando le incontravo, le invidiavo. Non potrei mai andare in bicicletta, non sono pratica e mi fa paura. È pericolosa. Così, con un giro per uno, il guadagno raddoppia. Comprerò la roba dai grossisti di Guglielmo e tutte le sere segnerò il ricavo e le spese su un bloc-notes. Voglio fare sul serio! Così quando in agosto ritorno dalla mamma sarà contenta, anche i miei fratelli, e tutto il borgo mi stimerà!
Marianna ha lasciato i due bambini alla vicina. È Carnevale e le scuole sono chiuse. La grande ha già compiuto dieci anni ma non se la sente di lasciarli soli e il giro non può aspettare. Le clienti sono sempre più numerose. Le cascine vicine al paese sono state ormai abbandonate dagli ambulanti e lei è rimasta sola a tirare la carretta. Hanno tutti la motoretta o la macchina e fanno giri lunghi e lontani. A Marianna il suo lavoro piace, conosce un sacco di persone, di donne, con alcune è diventata amica, e sono così in confidenza che le fa persino le rate.
“Smettila di ammazzarti, con quella carretta! Hai passato i trent’anni, diventi curva se continui così. Molla tutto e fai il giro senza carretta, soltanto per recuperare i puffi di quello che hai dato a credito. Se proprio vuoi, prendi gli ordini grossi, una dote o roba del genere, e li consegniamo insieme con il furgone, la sera oppure la domenica. Ma basta girare per una sottoveste o un paio di mutande! È più la fatica che il guadagno. Meglio mettere su un negozietto, che te ne pare? Ho un amico che me lo affitterebbe per poco.”
Tutte le sere Guglielmo le fa la predica.
Già, lui ormai fa i mercati! Ha i posti fissi, va in giro con il furgone della Volkswagen, si sente arrivato. Non si ricorda nemmeno più l’inverno di due anni fa, quando il mal di schiena l’ha inchiodato nel letto per più di un mese! Che spavento! Il massaggiatore veniva tutti i giorni a casa e costava un occhio della testa! Se non c’ero io con la mia carretta, si faceva la fame, si faceva. Ma gli uomini sono così, egoisti. Egoisti e smemorati. Non capisce che mi diverto a lavorare. Mi piace chiacchierare sotto i portici delle cascine. Conosco tutto di tutti: vita, morte e miracoli! Mi vogliono bene e mi regalano ciliegie, uova, verdura fresca dell’orto. A casa mi annoio, e di certo anche in un negozio, tutta sola ad aspettare che qualcuno entri. L’unica cosa che mi fa venire il magone è che ormai i bambini si vergognano di me. Soprattutto lei, la grande, ormai è una signorina. L’altro giorno, stava passeggiando con le amichette, e quando mi ha visto spuntare sulla strada di casa si è girata e ha cambiato direzione. Crede che non me ne sono accorta. Ma lo so bene, si vergogna di me perché tiro la carretta!
“Guglielmo, guarda quel povar fiol!”
“Chi?” risponde Guglielmo un po’ sordo mentre, appoggiato al bastone, controlla le albicocche sull’albero.
“Quel povar fiol là. Quel chi porta do sacchi sulla spallia! Ma sei orbo? Non lo vedi? È carico come un somaro, porta due borse di plastica che strisciano per terra, cammina tutto curvo!”, strilla seccata Marianna mentre chiude il libro e si aggiusta gli occhiali attaccati a una catena di perline colorate. È seduta su una sdraio, nel giardino davanti alla villetta in sasso, di fianco alla casa che era di sua madre, ora dei fratelli. Da qualche anno, passa gran parte dell’estate qui, con Guglielmo. L’età l’ha leggermente irrobustita, ma il viso è rimasto tale e quale, l’espressione addolcita e le rughe le donano un aspetto signorile.
Si alza e insiste: “Quand quel povar fiol i passa davanti al cancel, fermal! Gli offro qualcosa da bere. Te capì?”
“Ma famm al piaser! Non vedi che è un marocchino? Non vorret confondarta, comprare quelle porcherie che vende? Famm al piaser!” si ringalluzzisce Guglielmo.
“Che vita! Non la auguro neanche ai cani. Vergognati! L’è un povar fiol!”, risponde Marianna con voce velata socchiudendo gli occhi.
“Atze’ ridicla! Fa quello che vuoi! Ma lasma astar!”
“Buongiorno signora, non ho venduto niente oggi, signora”, e un bel sorriso bianco si allarga sulla faccia del ragazzo.
“Da dove vieni?”
“Da Casablanca.”
“Mi spiace, non ho bisogno di niente, se vuoi ti posso dare dell’acqua.”
“Grazie nonna, ma non ho sete, ho bevuto alla fontana, grazie, compra qualcosa dai, ho due
bambini, devono mangiare”.
“Due bambini? Ma quanti anni hai?”
“Ventidue, ma i bambini sono al mio paese, mando i soldi.”
“Mi dispiace, non posso mica mantenere tutti, se vuoi posso darti qualche albicocca dell’albero.”
“No, grazie, compra qualcosa, dai, per i bambini.”
“Su non insistere, non ho bisogno di niente, ciao.”
Tu guarda questo impertinente, rifiuta da bere e da mangiare, già due bambini così giovane, mah… chissà se è vero, per me caccia balle, vuole soltanto impietosirmi… hai capito? vuole soldi, altro che le albicocche dell’albero… io, quando tiravo la caretta e mi offrivano frutta e verdura, la prendevo, altroché… mi accontentavo, mica facevo la schizzinosa… questi invece, vengono qui, e pretendono, noi ci siamo sudati tutto, nessuno ci ha regalato niente, altroché… che vita abbiamo fatto… non la auguro neanche a un cane… ha ragione Guglielmo, se ne stiano al loro paese…
Rita Barbieri è nata in Lunigiana, ha vissuto in Brianza fino a 25 anni, poi a Milano. Ha frequentato il Liceo Artistico di Brera e Scienza Politiche alla Statale. Femminista, impegnata da giovanissima nelle lotte per la parità di genere e i diritti civili, ha militato nel sindacato del movimento dei consigli, con ruoli direttivi nella Fiom e nella Cgil, quindi candidata al Parlamento Europeo nelle liste del PCI del 1984. Da anni è consigliera nel Municipio 6 del Comune di Milano, per 5 anni con la carica di Presidente della Commissione Cultura e da 3 con quella di Assessora al Welfare e Coesione Sociale, Diritti, Educazione Civica e Politiche di Genere. Appassionata lettrice, ha sempre coltivato l’amore per l’arte, la letteratura, i viaggi, la fotografia, la lingua spagnola.