di Pietro Margutti
I documentari sono spesso una salvezza in TV. Li puoi guardare senza impegno, già iniziati, anche in altre lingue, persino in tedesco. Ieri sera le zebre erano vittime degli attacchi dei leoni durante la notte.
Attaccati di sorpresa, gli animali fuggivano, si disperdevano. Uno sbagliava una mossa, restava isolato, forse perché debole, anziano o ferito, e il suo destino si compiva. Dopo gli attacchi, al mattino, il branco di zebre tornava a riunirsi. Gli animali si ritrovavano, manifestavano la loro forza, confermavano la loro sopravvivenza. Non avevano memoria di ciò che era accaduto e questo permetteva loro di restare sereni.
Aperti, ariosi, senza i vecchi scompartimenti, i treni come gli uffici sono diventati open space, agili, condivisi, veloci. Il mio corre silenzioso e affollato verso Milano, nel tardo pomeriggio di venerdì. Dentro molti italiani, pendolari di lungo raggio, forse con frequenza settimanale. Chi lavora ancora, chi dorme, chi legge nonostante la pressione delle curve in velocità. Altri sono in partenza, svizzeri o tedeschi, sorridenti. I più coraggiosi sono diretti nella tumultuosa Italia, altri nel più rassicurante surrogato locale,
Lugano. Fuori, sotto un cielo limpido, scorrono i bellissimi, perfettissimi e noiosissimi villaggi sul bordo dei laghi, sotto pigre montagne che aspettano una primavera ancora acerba. I prati in basso sono di un elegante velluto scuro, la corsa del treno li accarezza. In fondo al lago di Zugo, il porticciolo di Arth Goldau e poco l’oltre l’immersione rapida nel tunnel, che scava la sua lunga via verso sud. Finisce la vista e, nel buio, tornano le riflessioni. Ho preso il treno delle cinque e venti a Lucerna per un pelo. Il solito affanno, ma il lavoro è andato bene e gli incontri hanno definito il lavoro e le produzioni di qualche mese.
Non ci danno visibilità oltre l’estate, nessuno sembra ancora informato. Ma il ricordo è un altro, quell’esperienza così, in diretta. Joanna era nella sala di fronte, non mi aveva visto. Tutti gli uffici hanno pareti in vetro, appena sfumato di verde, in cui il lavoro è trasparente e luminoso. Ascoltava un’altra persona, di fronte a lei, che sembrava recitare un lungo monologo.
Joanna. Il primo incontro anni prima, nella vecchia sede a Basilea, con una vista magnifica. Un’ora con lei finì per durare l’intera giornata. Chiedevo senza sosta e lei capì, rivoluzionò l’agenda e continuò a rispondere. Ero un noioso novellino, ma non per la paziente sensibilità di una persona, una donna, che sapeva costruire. E poi insegnando s’impara, mi disse, e m’insegnò anche questo, perché nel farlo si mette a fuoco in un modo nuovo ciò che si trasmette. È vero, è brava, pensai. Perché allora, perché adesso? Poi seguimmo diversi progetti, altri reparti, ma il contatto rimase. Non è scontato quando c’è differenza d’età, di lingua, di cultura. Basta osservare i capannelli al bar o i tavoli della mensa. Ci si raggruppa per generazioni, per livelli, per formazione, tutti più o meno chiusi nella propria bolla. Sono pochi quelli che riescono a romperla. Ieri, dopo aver notato Joanna, avevo ripreso a seguire il mio lavoro, la noiosa pianificazione. Forse l’avrei incontrata più tardi, o in mensa. Poi invece, durante una pausa, l’ho vista nel corridoio, sola e immobile. Avevamo terminato insieme? Bene, perfetto. Ho fatto un cenno ai colleghi e l’ho avvicinata con un sorriso.
– Joanna! Ciao, come va?
Un silenzio inatteso.
– Well, not so good, and you Giacomo?
La voce stentava. E il suo italiano, cui teneva tanto? Sul viso solo tanta fatica.
– I’m fine. I’m here to discuss the planning. What’s the matter?
Guardava altrove, lontano, immersa in un silenzio che mi imbarazzava. Non sapevo cosa aggiungere e stavo per salutarla e congedarmi.
– They fired me. Just now.
– Cosa?
Usci così, di petto, in italiano. Era appena accaduto, in quella sala, e dovevo essere il primo cui lo riferiva.
Si stava riprendendo. Poi le sue mani si sono mosse per sistemare i capelli e dopo un respiro profondo ha finalmente rivolto lo sguardo verso di me. Le parole scorrevano più fluide, in italiano.
– Giacomo, scusa. Sì, mi hanno licenziata. Forse è meglio che vada.
– Certo Joanna, capisco. Mi dirai.
Invece riprese.
– Poco fa. Non sono sola, sai. Una riduzione, come si dice? Strategie dall’alto, puoi immaginare, i costi.
Anche in altre sedi. Temevo che potesse accadere, ma passare nel tritacarne è un’altra cosa.
– Cosa ti hanno detto?
– Una del personale mi ha informato e mi ha presentato il “pacchetto”. Mi danno tre mesi, il supporto di outplacement e anche lo psicologo.
L’inglese è chirurgico, rimuove ogni profondità emotiva. Essere cacciati, dover trovare un altro posto suonerebbe molto diverso.
– Ti aiutano a cercare un altro posto?
Altri pensieri, in silenzio. Riprendo io.
– Ti ho vista prima, al di là dei vetri. È stato un colloquio lungo.
– Non so, ho perso il senso del tempo. Sì, deve essere stato lungo. Ho avuto l’impressione volesse colpevolizzarmi per spegnere ogni mia reazione.
– Tutto studiato?
– È un mestiere. Penso che accetterò il loro supporto per trovare un altro lavoro, ma non lo psicologo, quello no. Se capisco bene, mi vogliono convincere che non sono all’altezza del “loro” ruolo. E non mi farebbe bene. Oddio, sono ancora scossa.
– Certo. Ma tre mesi sono un tempo adeguato a trovare una buona posizione?
– Non so, non lo so ancora. Almeno non è come in America o lassù da me. Lì avrei già il mio scatolone tra le mani e la guardia che mi accompagna alla porta.
È di origine polacca, ora ricordo. Un giorno mi raccontò come avesse seguito il marito, ingegnere come lei, trasferendosi in Svizzera. Esperta di chimica farmaceutica e con uno straordinario bagaglio di lingue, aveva trovato posto con facilità in quel reparto, mi disse, dove stavano creando un gruppo molto aperto e internazionale. Ora forse la politica era cambiata.
– Ma qui non possono sostituirti in tre mesi. È assurdo. Nemmeno in trenta. Con la tua esperienza, la tua sensibilità.
Quello che non serve oggi, la sensibilità.
– Suppongo cambieranno tutto. Il lavoro va in oriente, lo sai, e in parte giù da voi, ma dovete stare molto attenti. Qui rimarranno pochi manager, i più duri. Avevano annunciato grandi novità. Beh, questa è la mia.
– Joanna, mi dispiace.
– Grazie Giacomo. Non so ancora come, ma me la caverò. Tu quanto stai qui?
– Sono qui da ieri, ma domani riparto subito. Sai, i piani trimestrali.
– Te la stai cavando bene ho sentito.
– Ho avuto la migliore insegnante.
Il primo sorriso.
– Come sta Francesca? Tommaso? E la nuova recluta Laura?
Uno a uno, i nomi di tutti. Troppo attenta per durare.
– Bene. Te li saluto. Saranno sconvolti quanto me. Prendi un caffè? Ne vuoi parlare ancora?
– No, grazie. Ti lascio, ho bisogno di riposare. Ma ti scriverò presto e spero anche di passare da Milano.
– Certo, fammi sapere. Dobbiamo vederci.
– Sure, tschüss.
– Take care!
Sono incerto, un abbraccio è sconveniente? È un attimo, troppo tardi. Solo una mano sul braccio, imbarazzata, con una lieve stretta. Uno sguardo, poi lei si allontana con passi dignitosi.
Mi avvio malvolentieri verso l’angolo caffè. Gli altri sono già lì. Non mi va di seguire i loro discorsi.
– An expresso, Giacomo?
– No, thanks.
I sopravvissuti si contano. Parlano, scherzano. In gruppo certi argomenti si evitano, se ne parla solo in privato. Dopo la riunione sono uscito presto e non ho cenato. Mi sono scusato con gli altri e sono rientrato subito in albergo. Ho letto un racconto di Salinger che avevo con me e poi ho dormito. Ero esausto, sopravvissuto, chissà sino a quando. Al mattino ho preparato il bagaglio e, dopo una rapida colazione e fatto il check out, sono tornato dentro, nel branco.
Usciamo dalla galleria ormai all’imbrunire. Per fortuna. L’oscurità mi opprimeva. Il cielo sereno disegna il profilo delle ultime montagne. Verso occidente, i colori sfumano dal verde scuro del primo piano, dove si distinguono i boschi, a un elegante e indistinto azzurro, prima scuro e poi via via più luminoso in fondo, dove le montagne più lontane si lasciano trasfigurare dall’ultima luce. Più avanti, senza più ostacoli, il treno può correre in discesa sino a Bellinzona e oltre. Gli scenari sono dolci e la bella stagione più avanzata. Il lago poi annuncia Lugano, dove qualche pavido turista scende, senza voler sapere quanto è bello essere meno perfetti più a sud. Chi resta è diretto in Italia. Rivedrò Joanna, penso, devo trovare il modo di farla tornare a Milano un paio di giorni e organizzare una serata fuori con tutti i colleghi. Poi, mentre mi perdo nella stanchezza, siamo già a Como. Col buio arriviamo nel disordine dell’Italia sofferente e affollata, ma corriamo via rapidi e la notte e la velocità nascondono le crepe dei muri e delle anime. Qualcuno sistema già le sue cose. I giornali, il computer, la giacca. Milano è vicina. Si aggancia la rete italiana e mando un messaggio a casa, sono in arrivo. So che mi stancherò presto del caos milanese, ma è bello tornare.
Poco dopo, oltre Monza e oltre la periferia, mentre il treno consuma gli ultimi binari diretti in Centrale e mi preparo a scendere, torno a pensare a Joanna, al suo solitario disagio in quella sala, allo sguardo fisso sul pacchetto elegantemente presentato, al centro della scrivania, in una sobria copertina vuota di ogni colore aziendale. Mentre il treno rallenta sotto la grande volta e spio dal finestrino cercando il lato di discesa, mi pare di avvertire sulle sue dita la ruvida sensazione di aprire la cartelletta e sfogliare la
durezza di quelle pagine. Mentre cammino lungo la piattaforma, forzando le gambe un po’ stanche a scansare le rotelle dei trolley, immagino la sua mente divisa e confusa tra le parole che provava a leggere e quelle che ascoltava da quella voce sicura e incalzante. Mentre scendo lungo il percorso commerciale della stazione e guardo distrattamente le vetrine, aspettando l’indicazione per la metropolitana o il profilo di un pacchetto destinato a me, vedo la fragilità di quello che facciamo ogni giorno, una profonda costruzione di pazienza e determinazione che può volatilizzarsi nella tempesta di un brusco cambiamento di strategia aziendale. E stretto nell’ultimo affollato vagone verso casa, mentre conto quante fermate mancano, cerco di ritrovare serenità nel branco di zebre. Nella notte, stanco e senza memoria, non so, non posso sapere che forse mi cercano, che forse hanno scelto, mi hanno isolato. Non li posso vedere, ma forse sono già tutti intorno. Forse, nella notte, sono già solo e senza scampo.
Pietro Margutti è nato a Milano nel 1957 e vive in Brianza da molti anni. Dopo varie esperienze professionali in Italia e all’estero, lavora come redattore e formatore tecnico per varie aziende dell’area milanese. Da alcuni anni, nell’associazione artistica Alessandro Conti di Monza, è anche autore di opere figurative frequentemente esposte nelle mostre dell’associazione.