di Lorenzo Pedrazzi
Di fronte all’ingresso c’è una giovane chitarrista scalza che canta in inglese con voce mielosa, attorniata da un gruppetto di ragazzi seduti per terra a gambe incrociate. Osservandola, mi sorprendo a pensare che ci sia qualcosa di brutalmente lascivo nei suoi piedi nudi, qualcosa di sporco e ammaliante, come un vizio da cui non ci si vuole liberare. La sento dire che ha bisogno di soldi per comprarsi un biglietto del treno, ma è curioso che, fra tutti i luoghi di Parigi, abbia scelto di esibirsi proprio da Shakespeare and Company. Bisogna però ammettere che la Chitarrista Scalza sembra perfettamente a suo agio sotto quell’albero, circondata da avidi lettori e aspiranti scrittori, mentre una piccola fila – composta in gran parte da turisti, me compreso – attende di entrare in una delle librerie più famose del mondo.
La sede attuale si trova ai margini del Quartiere Latino, in un cantuccio tranquillo e protetto che volge sulla Senna. In origine, però, la libreria sorgeva al numero 8 di rue Dupuytren, dove Sylvia Beach – un’espatriata americana del New Jersey – la fondò nel 1919, per poi trasferirsi nel 1921 al numero 12 di rue de l’Odéon. Fu qui che Shakespeare and Company divenne il crocevia della Generazione Perduta, ospitando scrittori leggendari come Ernest Hemingway, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein e James Joyce, il quale ne usufruì addirittura come suo ufficio personale; non a caso, Beach fu la prima a pubblicare L’Ulisse nel 1922, e continuò a pubblicarlo anche quando gli Stati Uniti e l’Inghilterra scelsero di bandirne la diffusione.
Shakespeare and Company è un’isola popolata da utopisti e cacciatori di chimere, dove i librai sono rigorosamente anglofoni e si parla solo inglese: un porto franco della letteratura mondiale.
Purtroppo, l’utopia s’interruppe nel 1940, e le ragioni della chiusura sono romantiche come l’atmosfera che si respira nelle sue stanze: pare che Sylvia Beach, durante l’occupazione nazista, si rifiutò di vendere a un ufficiale tedesco l’ultima copia di Finnegans Wake di Joyce, e il negozio fu chiuso per ritorsione. Toccò quindi a George Whitman riaprirlo in rue de la Bûcherie, nel 1951, ma inizialmente si chiamava Le Mistral, e fu ribattezzato Shakespeare and Company solo nel 1964, dopo la morte di Sylvia Beach. Nel frattempo, però, la nuova libreria era diventata il punto di riferimento della Beat Generation grazie a scrittori come Allen Ginsberg, Gregory Corso e William S. Burroughs, che rinnovarono la sua fama. Ora è gestita da Sylvia Beach Whitman, l’unica figlia di George Whitman.
La coda all’ingresso è più agile del previsto: non faccio nemmeno in tempo a concentrarmi sulla Chitarrista Scalza che già mi ritrovo dentro la libreria. Muovo passi incerti, preda di un eccessivo timore reverenziale. Le sale sono anguste, brulicanti di visitatori che, non appena si fermano a sfogliare un libro, causano un ingorgo immediato. Fa caldo perché non c’è aria condizionata, ma alcuni ventilatori portano un tenue refrigerio negli angoli più reconditi del negozio, tra la sezione della fantascienza e quella dedicata alla grafica. Si respira un clima antico, profumato di carta e legno, con gli scaffali colmi di libri che arrivano fino al soffitto, e una luce polverosa, intima, come quella di un vecchio abbaino esposto al sole pomeridiano. Tanti libri, poco spazio, difficile orientarsi. Ci muoviamo come polli senza testa, seguendo il flusso per non intralciare il passaggio, ma pronti ad appiattirci contro uno scaffale se scorgiamo qualcosa che ci interessa.
Superato l’atrio principale, dove si svolgono le presentazioni e gli incontri con gli scrittori, entro in una stanza molto più piccola, e sulla destra noto una scala ripida che sale al primo piano. Sugli scalini è stata dipinta una frase del poeta persiano Hāfez di Shiraz, tradotta in inglese: “I wish I could show you, when you are lonely or in darkness, the astonishing light of your own being“. Un cartello, decisamente meno lirico, ci avverte di stare attenti ai borseggiatori. La scala è strettissima, quasi impossibile da percorrere se altre persone scendono nella direzione opposta, quindi devo aspettare che si liberi prima di poter salire. L’attesa è però ricompensata da un ambiente ancor più garbato e silenzioso: il piano superiore di Shakespeare and Company non è più una libreria, ma una biblioteca che raccoglie la vasta collezione di Sylvia Beach, a disposizione di chiunque voglia consultarla (a patto, però, di non portarsi via alcun volume). Qui, un piccolo atrio mi offre due opzioni: sulla destra c’è una stanza con una pianola e alcune sedie, sulla sinistra un corridoio che conduce a una sala più grande, illuminata da un’ampia finestra. Gli scaffali con i libri sono ovunque.
All’inizio del corridoio, sulla sinistra, si apre un minuscolo vano tappezzato di foglietti con i messaggi dei visitatori; ci sono anche una piccola scrivania, una vecchia macchina da scrivere e una seggiola, su cui siede una ragazza dalla pelle lunare, alta e magra, avvolta in un cappottino poco adatto alla stagione estiva. Sta vergando qualcosa sul suo quaderno, o forse è solo un biglietto, non riesco a vedere bene. Ha la schiena curva sulla miniscrivania, l’aria concentratissima di chi sta svolgendo un’operazione vitale, e indossa un buffo cappello nero. Più avanti, al termine del corridoio, scorgo la stanza principale con la finestra da cui si intravede la Senna. Di fronte alla finestra c’è un tavolo rettangolare, mentre il perimetro della sala è disseminato di poltroncine e divanetti, tutti occupati da lettori assorti, con le mensole cariche di libri alle loro spalle. È qui che si avverte un clima quasi sacrale, gravato dal peso di una Storia – sia umana sia letteraria – che non sono sicuro di poter cogliere nella sua interezza, o nel suo complesso intreccio di ambizioni artistiche, vita quotidiana e precarietà esistenziale. Qualcosa sfugge sempre alla comprensione, ed è per questo che ci muoviamo per i corridoi di Shakespeare and Company come se fossero di cristallo, dosando ogni passo e ogni gesto. Lo consideriamo alla stregua di un pellegrinaggio, per quanto ridicolo ed eccessivo possa sembrare.
Queste preoccupazioni di certo non affliggono Kitty, la gattona bianca che dorme sulla poltrona di fianco al tavolo, nel vertice destro della stanza. Pare un cucciolo di foca. Ecco, la gattona bianca incarna l’apice di un gusto bohémien che ancora sopravvive, seppure addomesticato dalla sua fama popolare e dalla vanità dei poser, nel nucleo pulsante di questa libreria, dalla sala lettura fino allo spiazzo dinanzi all’entrata, con i suoi musicisti e i suoi scrittori in erba. È inevitabile chiedersi dove si fermi l’essenza primigenia di Shakespeare and Company, e dove inizi il compiacimento dell’autorappresentazione.
Me lo chiedo mentre acquisto una copia di Wise Men di Stuart Nadler, con tanto di firma
originale dell’autore. Alla cassa c’è un ragazzo con occhi chiari, lunghi capelli biondi e barbetta dello stesso colore, che mi dice di aver fatto parte della stessa band in cui suonava la sorella di Nadler. Sono piacevolmente sorpreso: mi trovo a due soli gradi di separazione dall’autore, cose che possono accadere solo in un posto come questo. Gli dico di aver amato l’altro libro di Nadler, The Book of Life, ma lui mi risponde che paradossalmente non ha mai letto nulla di suo. Peccato, penso io. Comunque, il ragazzo mi chiede se voglio il timbro di Shakespeare and Company sulla prima pagina del libro, e io gli rispondo «Sure, thank you», senza sapere alcunché di questa consuetudine. Ma quel sigillo d’inchiostro dimostra quanto la libreria, ben consapevole della sua notorietà iconica, sia diventata un vero e proprio marchio, quasi una griffe da ostentare nella propria biblioteca personale. D’altra parte, in quale altro modo sarebbe potuta sopravvivere di fronte al calo dei lettori, alla diffusione degli e-book e allo strapotere della grande distribuzione? Impossibile biasimarla.
All’uscita ritrovo la Chitarrista Scalza che abbraccia la Ragazza Col Cappello Buffo. Sorride e la ringrazia calorosamente, ribadendo che aveva bisogno di soldi per comprarsi un biglietto del treno. Non so cosa sia successo fra loro due. Evidentemente la Ragazza Col Cappello Buffo ha deciso di aiutarla in qualche modo, e vederle insieme mi suscita un misto di tenerezza e curiosità antropologica: come si chiamano, da dove vengono, cosa fanno? Sono segreti che entrambe custodiranno gelosamente, magari limitandosi a condividerli tra loro stesse, per rallegrarsi di ogni tratto comune e ammirare le reciproche differenze. O almeno è così che m’immagino quell’abbraccio fugace: come uno scambio istantaneo di informazioni tra spiriti affini.
Mi siedo sul muretto che separa il cantuccio della libreria dalla strada, ascoltando la voce della Chitarrista Scalza ancora per un po’. Si sposta in prossimità dell’ingresso e intona un pezzo soft rock di cui non ricordo il titolo. Chissà se ha ancora bisogno di soldi, o se invece sta cantando solo per il piacere di farlo, senza fini utilitaristici, rinvigorita dall’attenzione dei passanti e dalla delicatezza di quel contatto umano?
Torno da Shakespeare and Company durante l’ultimo pomeriggio del mio soggiorno parigino: voglio prendere un regalo per Claire, la studentessa francese che mi ospita in casa sua, e che ascolta con pazienza le mie bislacche osservazioni sui corvi di Parigi e sulle mucche bianche che popolano la campagna francese. Abbiamo trascorso le ultime serate sul davanzale della finestra, con il fumo delle sue sigarette che si smarriva all’imbrunire, parlando di lavoro, università, cinema, serie tv, vita metropolitana e paralleli linguistici tra l’italiano e il francese, ma incontrandoci sul campo neutro dell’inglese. Per merito suo, il mio viaggio è diventato un’esperienza molto più ricca e poliedrica di una normale vacanza. Le sono grato.
Stavolta non trovo la Chitarrista Scalza (spero abbia raggranellato abbastanza denaro per la sua misteriosa destinazione), e non c’è nemmeno la coda all’entrata del negozio. Si cammina liberamente, senza la pressione fisica e psicologica della folla. Acchiappo l’ultima copia di The Book of Life per Claire e me la porto al piano superiore, dove qualcuno sta suonando la pianola nella stanza più piccola. Mi siederei volentieri, ma non c’è posto. Al contrario, nella sala grande c’è una poltroncina libera, mentre Kitty sta dormendo sul divanetto che occupa il lato destro della stanza, identica a come l’avevo lasciata: ha solamente cambiato posto. Al suo fianco c’è una ragazza bionda, imponente e giunonica, che ha steso le gambe sopra di lei per appoggiarle sul bracciolo. La gattona però non se ne cura, e non reagisce nemmeno quando la ragazza comincia a vezzeggiarla con carezze e altre effusioni.
Io mi siedo sulla poltroncina e per qualche istante assaporo il delicato brusio che giunge dalla strada, attraverso la finestra spalancata. Leggo la prima pagina di The Book of Life (non l’avevo mai letta in inglese), poi sfilo un libro a caso dallo scaffale alle mie spalle: è The Mysterious Half Cat (A Judy Bolton Mystery) di Margaret Sutton, pubblicato nel 1936. Anche in questo caso mi limito a leggere la prima pagina, in cui Judy Bolton – eroina di una serie di romanzi investigativi molto popolari tra gli anni Trenta e i Sessanta – viene svegliata in piena notte da un rumore sconosciuto.
Per contrasto, una signora si addormenta sulla poltrona di fronte a me, il giornale afflosciato tra le mani.
Guardandomi attorno, vedo che ognuno è trincerato nella propria campana di vetro, come studenti in biblioteca. Cosa accadrebbe se rivolgessi una parola alla ragazza bionda che sta stuzzicando le zampe di Kitty? O se, di slancio, afferrassi il giornale della signora prima che cada per terra? Mi chiedo se la ricerca del contatto umano sia contemplata, nella quiete della sala lettura. Sembriamo tutti molto concentrati sul valore intimo e privato della nostra visita, più che sull’opportunità di condividerne i piaceri… o, almeno, questo vale per chi concepisce il pellegrinaggio da Shakespeare and Company come un momento introspettivo, alla scoperta di antichi fantasmi letterari che si aggirano per i corridoi come il fruscio della brezza sulle pagine di un libro. Mi piacerebbe tornare qui ogni settimana per osservare la gente, godermi il silenzio, cogliere ogni più piccola interazione sociale, e studiare l’influenza gravosa che questo posto – con il suo lascito quasi soffocante di Storia e Cultura – esercita sugli avventori.
Mi alzo e, dopo aver riposto The Mysterious Half Cat, saluto Kitty facendole un grattino fra le sue minuscole scapole, ma lei ovviamente non reagisce in alcun modo. La ragazza bionda intanto se n’è andata, e il suo posto è stato preso da una signora minuta, esilissima, che legge un libro con gli occhialetti calati sul naso. Alla cassa c’è invece una giovane commessa dal grazioso accento britannico, con i capelli lunghi e rossi. Le chiedo se è possibile coprire il prezzo di The Book of Life, ma lei fa di meglio, e chiude il volume in un’elegantissima confezione regalo che riporta una frase di Groucho Marx: “Outside of a dog, a book is man’s best friend. Inside of a dog it’s too dark to read“. La citazione è scritta a caratteri d’oro su carta blu, che garantisce un notevole effetto scenico.
Potrei consegnarlo a Claire quella sera stessa, ma preferisco evitarle imbarazzi, e così ci limitiamo a fare una lunga chiacchierata sul solito davanzale, mentre il sole si ritira pian piano dalle stradine del nostro arrondissement. È ormai buio quando ci congediamo per andare a letto: rientro nella mia camera e stacco una pagina dal quaderno per scriverci un biglietto da accompagnare al regalo, che il mattino dopo, reduce da un sonno frammentario, ripongo sul tavolo del soggiorno. È molto presto, e la notte cede il posto alla luce grigia dell’alba. Mi preparo senza far rumore nella pace ovattata dell’appartamento, lasciando che sia il bagliore tenue del nuovo giorno a illuminare i miei passi.
Il libro e il biglietto sono nell’angolo del tavolo, puntati verso la sua porta: non appena Claire farà capolino dalla stanza, saranno la prima cosa che vedrà.
Quando trascino la mia valigia verso l’uscita, le rotelle accennano un lieve sospiro lungo il pavimento della sala, poi faccio scattare la serratura dell’ingresso ed esco sul pianerottolo. In quel momento un trillo elettronico sembra risuonare dalla sua camera, forse è la sveglia. Possibile che l’abbia programmata così presto? Desiderava forse salutarmi prima che partissi? Fra non molto vedrà il mio piccolo dono, ma io sarò già lontano, giù per le scale, lungo la strada, nelle arterie della metropolitana e poi nel caos scintillante della stazione, riflettendo su ciò che Claire potrebbe aver pensato davanti al mio biglietto, al libro di Nadler e alla buffa citazione di Groucho Marx.
Lorenzo Pedrazzi è nato nel 1984 a Milano, dove si è laureato in Scienze
dei Beni Culturali e Scienze dello Spettacolo. Scrive per ScreenWEEK,
Filmidee e Doppiozero, ma ha collaborato anche con Itinera, Players e Rivista Studio; è inoltre fra gli autori del podcast Destini Incrociati.
Diversi suoi racconti sono apparsi in varie antologie e riviste letterarie.