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I racconti della scuola di scrittura Arte del narrare

Formiche

Lui aveva deciso di portarla al mare, a una mezz’ora dal paese. Guidava con naturalezza, come se l’auto fosse parte di sé, toccava appena il volante con una mano mentre l’altra, imperterrita, svolazzava sopra le ginocchia di Marta, avvicinandosi a poco a poco, finché sembrò normale che le sfiorasse.

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di Lucia Borro

Erano sedute al tavolino del bar nel sole declinante davanti a due birre. Carla le parlava della figlia, non era a posto col lavoro ma questo non le impediva di stare in giro fino a tardi. Cos’avevano tanto da festeggiare ‘sti ragazzi?

   “Oh Carla, a posto col lavoro oggi non ce n’è nessuno, deve pur distrarsi, ha vent’anni. Se non lo fa adesso…”, rispose Marta guardandosi intorno. Cosa le poteva dire? C’era da farsi cadere le braccia. Per fortuna lei figli non ne aveva. Le bastavano quelli degli altri ai quali cercava di dare un minimo d’istruzione la mattina in classe.

   Due tavolini più in là un uomo non smetteva di fissarle. Non ha senso, pensò Marta, erano due donne mature, ordinarie. Istintivamente strinse la borsa in grembo, prese un sorso di birra e cercò di concentrarsi sul discorrere di Carla.

   Non appena i loro bicchieri furono vuoti, quasi fosse un segnale, l’uomo si alzò e venne verso di loro.

   “Ciao Carla”.

   “Fabio! Come stai? E Francesca?”.

   “Tutto bene…”.

   Carla aprì la mano e lui interpretò il gesto come un invito a sedersi con loro. Marta ne fu infastidita. Cosa s’immischia? Stiamo parlando tra noi. Sperò che l’incontro potesse concludersi in quattro parole di circostanza.

   Carla fece le presentazioni, era amica della moglie di lui, Francesca appunto. La coppia abitava in un altro paese, a una ventina di chilometri. L’uomo ordinò al cameriere altre tre birre.

   “Non per me grazie”, esclamò Marta brusca ma lui fece finta di non aver sentito e continuò a intrattenerle sui lavori di ristrutturazione che aveva cominciato in casa e su quanto spesso la moglie fosse lontana per lavoro. Marta si sentiva addosso i suoi occhi come se lui le stesse costruendo intorno una gabbietta di fil di ferro.

   Il discorso cadde su temi di attualità.

   “Ormai non ci sono più uomini veri”, dichiarò Fabio. “Se va avanti così fra poco saranno solo donne e gay a comandare”.

   “E allora?”, ribatté Marta seccamente. “Tutto andrebbe molto meglio”.

   Carla ridacchiò.

   “Io sono per la separazione dei ruoli”, continuò lui “la donna a casa e l’uomo al lavoro. Lei l’accudisce, lui la protegge”.

    Questo è scemo, concluse Marta.

   Giorni dopo, ripassando davanti allo stesso bar, si sentì chiamare.

   Fabio l’invitava tamburellando sul piano del tavolino. Lei colse di nuovo il lampo degli occhi e si avvicinò cauta. Alla prima sciocchezza, pensò, mi alzo e me ne vado.

   “Siamo colleghi, sai?”, esordì lui. “Ho fatto l’insegnante anch’io. Sono andato in pensione l’anno scorso”.

   Cominciò a raccontarle aneddoti sulla scuola, i guai che aveva affrontato all’inizio della carriera, l’impatto con i bambini difficili. Mostrava una tenerezza speciale verso di loro, sembrava saperli trattare con un modo dolce e fermo.

   Marta divenne loquace, il lavoro l’appassionava, espose le sue opinioni e trovò sensate quelle di lui.

   Quando si alzò per andarsene, lui le si affiancò. Girato l’angolo lei disse:

   “Io abito qui”.

   Era orgogliosa del suo appartamentino, se l’era comprato con le sue forze e l’aveva arredato con cura. Vi tornava contenta dopo il lavoro, ne amava l’odore, la luce, i libri. La sera si coricava con un senso di sollievo nel letto tutto per sé. Dopo un divorzio travagliato in cui il suo ex era riuscito a ottenere la casa comune e a esercitare, al solito, altre sottili prepotenze, Marta si teneva alla larga dai legami, come se le fosse piombata tra capo e collo un’intolleranza alimentare. Ci vuole poco, pensava, perché una storia si trasformi in invasione o peggio. A volte, di rado, le capitava qualcuno di passaggio. Perché no? Basta che restasse tale.

   D’impulso disse:

   “Vuoi vedere come mi sono sistemata?”.

   Mentre gli mostrava l’appartamento, lo prese in giro:

   “Uomini veri qui non ce ne sono. Qui comando io”.

   Il giorno dopo ricevette un messaggio complimentoso. Era chiaro che stava prendendo avvio un corteggiamento.

   Cosa fare? Era attratta dal suo sguardo, gli occhi verde-dorato, ed era diverso tempo che nessuno la portava fuori né passava per il suo letto. Non che questa fosse la cosa più importante. A quell’età gli uomini erano ormai abbastanza “inefficaci” nonostante le loro pillole. Non c’era d’aspettarsi granché.

   Se n’era convinta da un pezzo, buona parte del genere maschile non era composta da creature “rifinite”. La loro “adultità” rimaneva piena di buchi come se il fabbricante si fosse distratto, dimenticando qui e là tappi e coperchi. Il loro sviluppo restava incompleto e da quei buchi risalivano facilmente impuntature da bambini, convinzioni granitiche senza capo né coda… per non parlare dell’impulso a guardare le stesse solfe sui siti sportivi o quelli porno e a fare a cazzotti.

   Una frotta di scolari, insomma.

   Ce n’erano anche di “ben riusciti”, ammetteva Marta, ma erano rari o forse era lei che non li attraeva.

   Nondimeno all’inizio un nuovo corteggiatore è come un omino di marzapane, dolce, saporito, una vera fonte di piacere, a parte qualche contraccolpo sui livelli della glicemia.

   Marta accettò l’invito a cena.

   Lui aveva deciso di portarla al mare, a una mezz’ora dal paese. Guidava con naturalezza, come se l’auto fosse parte di sé, toccava appena il volante con una mano mentre l’altra, imperterrita, svolazzava sopra le ginocchia di Marta, avvicinandosi a poco a poco, finché sembrò normale che le sfiorasse.

   A cena ebbero spigole e chardonnay sotto la luna di maggio. Impossibile non correre verso l’epilogo. Lui le parlò della sua infanzia infelice: la madre vedova lo lasciava in collegio tutta la settimana e se ne dimenticava spesso anche la domenica. Come non intenerirsi?

   “Ma come te la sei cavata nella vita dopo un inizio simile?”.

   “Cinque anni di psicanalisi”.

   Marta se ne sentì rassicurata.

   Quando, saliti da lei, le labbra si toccarono e si aprirono, non percepì alcuno sfasamento, pareva che lui sapesse coordinare tempi e modi in millimetrica corrispondenza con i propri. I vestiti volarono in tutte le direzioni.

   “Che dio ti benedica!”, le sfuggì subito dopo.

   Di fronte a lei si ergeva l’idea platonica del sesso maschile, esemplare in tutto, forma, dimensioni, consistenza, con proporzioni armoniche da sezione aurea, un vero omaggio alle divinità preposte. Nelle ore che seguirono Marta poté constatare che l’efficacia era pari alla bellezza. Il proprietario sembrava aver raffinato l’arte del ritmo – lento, accelerato, sospeso, calmo, di nuovo accelerato – in perfetta consonanza con quello di lei, come se l’intuisse per istinto. A conclusione, tutta la carne interna di Marta, strati e strati, che avresti detto cieca, dedita al proprio lavoro di esistere in modo meccanico e ripetitivo come una colonia di formiche, ora cantava a gran voce, aveva messo da parte ogni disciplina, rideva, girovagava ebbra dentro di lei, producendo continui, piccoli sussulti di gioia. Mai le era capitato prima.

   Lui la mise davanti allo specchio in camera:

   “Guardati come sei bella adesso, sembri una ragazzina”.

   Di primo mattino, esausta, lei lo pregò di andare. Aveva bisogno di dormire qualche ora in pace.

   “Non mi puoi mandare via a quest’ora”, rispose lui allarmato.

   “Perché no? Hai la macchina… Su, vai”.

   Fabio le lanciò un’occhiata carica, scura. Si rivestì in fretta, uscì sul pianerottolo, si girò a guardarla un’ultima volta con la testa incassata tra le spalle. Corse giù per le scale come se fosse sul punto di perdere il treno.

   Marta non seppe più niente di lui per parecchio tempo. Non prese iniziative, era pur sempre un uomo sposato. Manteneva in sé il ricordo di quel miracolo e sperava vagamente in un nuovo incontro.

    Lo ritrovò seduto al solito bar. Salirono da lei con urgenza e il miracolo si riprodusse poco dopo.

   Mentre Marta carezzava quella bellezza in temporaneo riposo, lui le raccontò che gli aveva fatto un po’ da padre uno zio siciliano. D’estate se lo portava a vivere giù nel vasto clan di famiglia. Dovette battersi con gli altri ragazzi e lui all’epoca era mingherlino. Presto però, nelle gare e nei confronti, emerse la sua supremazia: la resistenza e il fulgore dell’organo avuto in dote non aveva paragoni. Nessuno aveva più osato mancargli di rispetto, rise Fabio.

   Più tardi, accoccolati l’una sull’altro, lui disse:

   “Non lo fare mai più”.

   “Cosa?”.

   “Cacciarmi via in quel modo”.

   “Oh, quante storie!”, rispose Marta.

   Le sembrò di avere di fronte uno dei suoi alunni in pieno capriccio.

   Si mise seduta e gli tenne un discorso: mai avrebbe rinunciato alla sua quiete, a quel momento del risveglio in cui si stirava contenta nel letto mentre seguiva con calma il filo dei pensieri. Aveva avuto pazienza tutta la vita precedente, con un marito che russava e le disturbava il sonno. Basta. Ormai si era abituata a non avere nessuno intorno al mattino e le piaceva così.

   Lui si alzò di colpo, l’espressione indignata, uscì senza parlare. Marta non lo rivide per due settimane.

   Tornò una sera.

   “Mia madre mi mandava fuori di casa il lunedì mattina, solo, al buio, nel freddo. Prendevo il primo tram per il collegio…”.

   Il viso si congestionò e i begli occhi si arrossarono.

   Marta per quella notte fece un’eccezione. Naturalmente non chiuse occhio e si alzò nervosa:

   “Vedi bene che non si può”.

   Lui tornò molte altre sere di seguito, non sembrava stancarsi, mostrava una adorazione per l’intero corpo femminile, carezzava, leccava, lo contemplava con minuzia come sotto incantesimo. Più tardi si strappava di lì, scappava per le scale, un ladro nella notte. Marta arrivava in classe, il mattino dopo, con le gote accese, le labbra ancora gonfie, come spalmate da un rossetto speciale, impossibile da trovare in commercio.

   “Cosa ti capita?”, le chiedeva Carla.

   Finita la scuola, Marta e Fabio andavano in qualche spiaggetta protetta in cui lui potesse baciarla. Parlava di sé, gli piacevano i colossal hollywoodiani, i top gun, leggeva fumetti di cui lei non aveva mai sentito parlare e libercoli di pessima qualità. Lei scuoteva la testa. Ora nei discorsi, oltre alle donne e ai gay, aveva preso di mira i musulmani, presto avrebbero conquistato l’Occidente, “e voi donne ne vedrete delle belle”. Lei si chiedeva come potesse essere così stupido e non resisteva a fargli la lezione.

   Meno male che nella vita quotidiana se lo sciroppava un’altra.

   Una sera mentre lui si muoveva delicatamente sopra di lei e i loro corpi umidi combaciavano, disse:

   “È grave”.

   “Cosa?”.

   Venne fuori che si era innamorato.

   “Dimmi che mi ami anche tu”.

   “Ma sì ma no, dai, non parliamo di questo”.

   “Ti prego”.

   Davvero è grave, rifletté lei. Meglio allontanarsi per un po’.

   L’anno scolastico era finito. Marta partì con una collega a visitare alcune isole vulcaniche in mezzo all’Atlantico.

   Lui le mandava messaggi a cascata:

   “Cuore mio, mia passione, sei il mio fiore e io il tuo giardiniere che ti annaffia con mano sicura…”.

   Stava svelando una certa vena poetica.

   Lei gli augurava la buonanotte. Dopo aver marciato tutto il giorno sull’orlo dei crateri, non vedeva l’ora di chiudere gli occhi.

   Ma il tintinnio dei whatsapp sembrava il canto del gallo.

   “Perché questi messaggi laconici? Tu non mi ami (emoticon disperato). Tutto di te mi manca, ho freddo, sono abbandonato su questo pianeta (emoticon del pianeta) in mezzo a gente schifosa, penso a te ogni minuto. Voglio riposare su di te, ancorato in te…”.

   “Sì caro, ma dormi bene adesso”.

   Prima di spegnere il telefono, appariva un suo ultimo grido:

  “Ma io non voglio dormire. Io sto male (emoticon di un teschio)!”.

  Venne a prenderla all’aeroporto. La sommerse di carezze. Non gli importava che la collega lo vedesse.

   “Vengo a stare da te”.

   “Scherzi? E tua moglie?”.

   Non gli importava nemmeno della moglie.

   “Io non voglio”.

   “Ma io ti amo!”.

   Marta si mostrò irremovibile. Mai e poi mai si sarebbe presa in casa quella testa balzana.

   “Sei una vera stronza. Con tutto quello che ho fatto per te…”.

    Seguitò a protestare per giorni, dal vivo, per telefono, per mail, per citofono. Le rinfacciava quant’era cattiva, come diventava brutta, una megera, a non amarlo.

  Era successo: ora Fabio vedeva in lei la madre amata e arpia. Cinque anni di psicanalisi buttati al vento.

   “Sono stufa”, gli disse un giorno esasperata. “Meglio non vedersi più”.

   “Non puoi farmi una cosa simile. So che mi ami”.

   “Ci rinuncio, rinuncio a tutto. Non sei mica il mio sex toy”.

   Fabio la fissò come se avesse ricevuto un manrovescio. Adesso mi ammazza, pensò Marta.

   Lui disse:

   “Non sai cosa ti perdi”.

   Guardandolo correre via provò sollievo, non vedeva l’ora di ricominciare a respirare.

   Trascorsero mesi. La vita di Marta riprese il suo corso, lavorava, vedeva le amiche, seguiva le conferenze in biblioteca. Frequentò un paio di seminari di aggiornamento, la palestra, i dibattiti del cineforum. Si trattava di superare l’inverno.  Ma più il tempo passava meno si sentiva in forma, dentro qualcosa borbottava, la metteva in uno stato di disagio. A scuola era inquieta, gridava con i bambini. Cosa mi sta succedendo?

   Come dio volle, arrivò la primavera, il bar mise fuori i tavolini. Rientrando Marta vi lanciava un’occhiata. Inutilmente.

   Una sera dalla finestra le parve di scorgere sul marciapiede qualcuno che somigliava a Fabio ma più magro, quasi ingobbito, la barba lunga. Per un attimo gli sguardi si incrociarono.

   “È lui!”.

   Scese le scale a rotta di collo ma quando arrivò in strada non c’era più nessuno. Rientrò delusa, ho le traveggole, pensò, o comincio a essere ossessionata.

   Nelle notti che seguirono percepì nel sangue una crescente agitazione come se quella sua colonia di formiche si fosse messa a fare chiasso in lungo e in largo, a protestare picchiando su pentole e tamburi. Manifestava il suo dissenso, declamava, lo chiamava.

   Marta provò docce fredde, autoerotismi, meditazioni. Fatica sprecata. Loro sapevano cosa volevano e da chi farsi accontentare.

   Smettetela! ordinava. Ma non c’era verso di ritrovare il sonno.

   Il sole lo scaldava ma il corpo di Marta languiva sul punto di disfarsi. Ora, nei suoi anfratti, ogni minuscolo animaletto offeso minacciava d’implodere da un momento all’altro. Divenne malinconica.

   “Cosa ti capita?”, le chiese di nuovo Carla.

   “Un po’ stanca. Siamo alla fine dell’anno”.

   Poi non resistette:

   “Volevo chiederti, ma quel tipo, Fabio, che fine ha fatto? Ti ricordi, l’avevamo incontrato al bar l’anno scorso”.

   “Non ti ho raccontato, poveretto. Ha avuto un crollo nervoso, ha perso dieci chili, non mangiava, s’impasticcava. Colpa della moglie. Era continuamente via per lavoro, l’ha trascurato. Alla fine se l’è portato in America dove lei aveva avviato un’attività. Sembra che adesso si stia un po’ riprendendo”.

   “Che storia…”.

   Dopo poco Marta salutò Carla e risalì in casa. Si buttò sul letto, così grande per lei, e sentì nel ventre le sue formiche chiudersi, ripiegarsi su se stesse affrante, avvolgersi strettamente in un velo nero.

   Si raggomitolò anche lei e pianse.

Di Arte del narrare

Arte del narrare organizza corsi di scrittura creativa a Milano e online

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