di Gabriella Ferrari Curi
Cesarina osservò il viso sorridente di sua sorella: uno sguardo lungo e pieno di rimpianto.
Voleva imprimersi bene nella mente i suoi amati lineamenti. L’aveva fotografata quell’ultima sera, in controluce, con il suo vestito blu di velluto e il colletto di pizzo bianco, illuminata da dietro dal chiarore della televisione. Era venuta benissimo. Proprio lei, in tutto e per tutto.
Le mancava solo la parola. L’avrebbe ricordata così per sempre.
Voleva sistemare la sua fotografia sulla credenza in sala, in una bella cornice d’argento che avrebbe comperato nel negozio Argenterie Rimoldi e Figli, in Piazza nel paese.
“La più bella cornice che avete. E’ per metterci la foto di mia sorella. No, la foto non l’ho con me. Mica è morta, che me la devo portare dietro nella borsa. E poi è di un formato grande,” avrebbe detto a quei due impiccioni dei Rimoldi, marito e moglie con i nasi da formichiere che vibravano per la curiosità. Tempo un’ora lo avrebbe saputo tutto il paese.
“Quanta compagnia ci siamo fatte negli ultimi dieci anni. Che la mia Rosetta è veramente una persona speciale.” Li avrebbe guardati dritti negli occhi con un lievissimo tono di commiserazione nella voce. “Non c’era mai pericolo di annoiarsi con lei!”
Ogni sera quando rincasava, era una gioia pensare a sua sorella ad aspettarla, seduta al tavolo della cucina che fungeva anche da tinello.
Stava di solito dietro le leggere tendine di plumetis inamidate, alla finestra che si affacciava sulla Piazza Grande. Si divertiva a osservare le persone che passavano. Faceva dei commenti arguti su ognuno di loro.
Non le scappava niente. Quasi avesse avuto delle antenne speciali.
Cesarina, mentre metteva a scaldare la cena, le raccontava nella sua giornata: i fatterelli capitati al lavoro, qualche pettegolezzo, chi aveva incontrato e cosa aveva provato quando la Tilde le aveva rivelato in gran segreto che aspettava il secondo bambino, senza essere sicura di chi fosse il padre…
“Ma ci pensi Rosetta, un altro bambino! Immagina se anch’io avessi avuto un bambino, un bel putein! Chissà, forse la mia vita sarebbe stata diversa… Ma va bene così, non mi posso certo lamentare per come mi sono andate le cose.”
Quanti discorsi, quante confidenze! Pensieri intimi che Cesarina non avrebbe potuto svelare a nessun altro. E poi a chi, lì nel paese?
“Rosetta mia, che magone, a doverti lasciare. Sì, hai ragione, adesso che verrà l’Hermann racconterò tutto a lui. Ma non tutto tutto, perché lo sai come sono fatti gli uomini, che si annoiano ad ascoltare i nostri ragionamenti di donne. Sono impazienti, loro. Non che voglia già adesso brontolare sull’Hermann, ci mancherebbe, che lui è proprio un brav’uomo, lo sai, e sono contentissima che ci sposiamo. Poi, con te mi posso sfogare, anche se ci divento un po’ rossa, ma qualcuno nel letto mi manca, che io sono stata sempre una donna calda, e già adesso al pensiero… uh, perché l’Hermann è proprio un bel maschione, e anche ben attrezzato. Ma cosa mi fai dire!”
Ridendo di gusto Cesarina fece alla sorella una carezza affettuosa sui capelli setosi lucidi, che la scorsa domenica aveva tinto in un morbido color mogano, quello della Kerastase, il numero 17.
“Proprio una sfumatura magnifica, questa! Ti sta anche molto bene. Ti dà una luce speciale al viso. Quasi quasi lo faccio anche a me, cosa dici?
No, hai ragione, non ho il tuo colore di carnagione. Anche se come te, anch’io ho dei bei capelli folti. Come quelli della mamma, te la ricordi? quando si scioglieva dietro la crocchia e se li pettinava. Una magnificenza… La minestrina è pronta tra un minuto. L’ho fatta con il pezzetto di vitello che ho comprato questa mattina dall’Antonio. Ho già detto anche a lui che stai partendo… Preparo subito la tavola. A te, per festeggiare la nostra ultima cena insieme, metto davanti il piatto azzurro della povera nonna Anselma, quello con i disegni di fiori, che ti piace così tanto. E un bel bicchiere di Lambrusco frizzante. Viene da vicino a Castellazzo, hai presente i Borri? dalle loro vigne… Ecco cara, e buon appetito! Scusa, ma dov’ho la testa? Con tutte queste emozioni mi sono dimenticata il grana, te ne verso un bel cucchiaio, che alla pastina aggiunge un tocco di sapore buono….”
Cesarina aveva quasi cinquant’anni. Anzi doveva essere già sui cinquantaquattro, ma lei, con aria innocente, barava un po’. Sapeva di dimostrarne di meno, con la pelle cremosa e liscia, lo sguardo malizioso e il fare peperino.
Si era trasferita in quel paese della pianura lombarda a tredici anni per entrare a servizio dalla signora Romilda. Povera diavola anche lei, che dopo aver lavorato quasi tutta la vita nella merceria proprio in Piazza, a Castel d’Isola, le era venuto un bel coccolone. E invece di godersi finalmente i soldi che aveva messo via risparmiando come una formichina, li aveva buttati a piene mani in medici e medicine.
Per darle un aiuto in casa un compare di San Prospero, il suo paese vicino a Modena, le aveva mandato Cesarina.
“E’ una brava figliola, onesta. Gran lavoratrice. Forte come un mulo. Soldi spesi bene!”
Così Cesarina, tra lacrime e speranze, si era trasferita in quella desolata terra straniera. In mezzo a nuvole di zanzare. Grigia. Nell’acqua sotto e sopra, otto mesi l’anno.
Avendo però un’indole ottimista pian piano si era abituata ai modi grezzi e mugugnosi della gente del posto, al cibo a base di riso, alla lontananza dalla sua espansiva, rumorosa famiglia. Aveva calcolato: tengo duro una decina d’anni, metto via un po’ di soldini e ritorno al paese al momento giusto, a trovarmi un marito. Un brav’uomo delle mie parti – che lì siamo tutti più gioviali – con cui mettere su casa, fare un paio di figli e finire i miei giorni con lui, mano nella mano, come la mamma col babbo.
Purtroppo la signora Romilda che stava sempre per morire, durò goccia goccia altri vent’anni. Vent’anni di medici, iniezioni, sciroppi, supposte, clisteri e pannoloni. Cesarina poco alla volta ci si era affezionata e la teneva pulita e profumata come una principessa. Ogni giorno se la portava a spasso per il paese, seduta sulla sua sedia a rotelle che sembrava su un trono, ben vestita e pettinata e il viso bianco e rosa di una bambina.
Che Cesarina aveva avuto da subito una mano delicata in queste cose e occhio attento con creme e profumi.
Una bella domenica di maggio allegra di sole, come se avesse preso finalmente la sua decisione, senza perdere tempo in chiacchiere e lamenti inutili com’era nel suo carattere, la signora Romilda morì.
Cesarina, piangendo, la vestì per l’ultima volta con il suo abito della domenica di pizzo marrone che le stava una meraviglia e per la veglia funebre la sistemò, nella bara, sul tavolo in sala da pranzo.
Fu proprio in quell’occasione che tutti poterono verificare di persona e da vicino che con le sue cure, nonostante i lunghi anni di malattia, la signora Romilda era diventata quasi attraente. Lei che da giovane, poveretta, non aveva avuto neanche la bellezza dell’asino, come dicevano da quelle parti. Che il marito, il defunto Tonino, l’aveva sposata soprattutto per la sua merceria che portava un fiume di soldi, non certo per la sua avvenenza.
In un frenetico incrociarsi di telefonate per comunicare la triste notizia, tutte avevano commentato: “La Romilda da morta? Uno schianto! Dimostra sì e no cinquant’anni. Pelle di seta. Senza una ruga. Un vero miracolo.”
Si era sparsa la voce. Addirittura molte donne anche dei poderi intorno, che la conoscevano poco o nulla, erano venute apposta per costatare un tale cambiamento. Chine sulla bara aperta, come a mormorare lentamente una preghiera commossa, avevano scrutato le sopracciglia folte e ben disegnate, il contorno degli occhi e della bocca liscio e compatto, le labbra turgide. La povera Romilda, con i suoi radi capelli gonfiati dalla lacca e distesa serena nel suo vestito color caffè, ben stirato, aveva un’aria così fresca e pimpante, da far invidia a tutte le donne venute a salutarla.
Alla sua morte Cesarina si trovò sola.
Con un piccolo gruzzolo che la sua assistita, senza parenti, le aveva lasciato. E l’appartamento nella Piazza. Incerta se ritornare al suo paese, dove era difficile trovare lavoro e tirar su quattro soldi o sfruttare in pieno la fortuna che le era capitata lì.
Si decise: fece un corso intensivo di tre mesi a Pavia per avere un diploma da appendere al muro e aprì un salone di bellezza, l’Istituto Cesarina, unico in tutto il paese.
Sembrava una bomboniera con le pareti dipinte di rosa confetto e le seggioline d’oro.
Vista la convincente pubblicità che senza volerlo le aveva fatto la defunta Romilda, la sua attività ebbe un gran successo da subito. Cesarina era felice. Si sentiva arrivata. “Estetista“, si ripeteva ogni tanto, perché la parola le suonava bene, più che se l’avessero chiamata avvocato o dottoressa.
“Sì, io sono l’estetista del paese”, proclamava con aria d’importanza appena conosceva qualcuno di nuovo. “L’unica dei dintorni.”
E’ che purtroppo tanta gente nuova da lì non passava. Soprattutto di maschi nuovi. Gli altri, tra l’altro niente di che, erano tutti sposati, ingabbiati stretti da famiglia e figli. Cesarina quando avrebbe potuto cogliere qualche buona occasione era stata troppo occupata, giorno e notte, con la signora Romilda, e non le restava il tempo per divertirsi, incontrare qualcuno e pensare a sistemarsi.
Così la sera o il sabato e la domenica, quando l’Istituto chiudeva, non sapeva che fare.
Tutte grandi amiche, le donne del paese, molte anche clienti affezionate.
Che si confidavano e le chiedevano consigli su ogni argomento. Che ridevano alle sue battute e ascoltavano i suoi discorsi. C’era con loro una certa disinvolta intimità, anche perché per il massaggio le vedeva distese sul lettino nude. Però la sera, e neppure la domenica, non facevano mai nessun programma con lei. Quando le incontrava per la strada non sembravano più le stesse, non si fermavano a chiacchierare, si salutavano appena. E proseguivano subito frettolosamente. Anzi la Mocchetti Ida, quando c’era stata la comunione di suo figlio Germano, che Cesarina aveva visto crescere, non l’aveva neanche invitata alla festa che aveva fatto al Ristorante Boschetto, che per la grande occasione aveva affittato tutto, e decorato con palloncini bianchi e rossi.
Porca vacca, nessuno a Castel d’Isola aveva mai visto tanta originale sciccheria, fu il commento unanime di tutti i partecipanti all’evento.
“E’ che i posti a sedere erano a coppie e tu ti saresti sentita a disagio a dover stare al tavolo delle vedove scompagnate. Tutte ben più vecchie di te e perfino un po’ tristi”, si giustificò imbarazzata la Ida, e anche un po’ sorpresa quando le riferirono che Cesarina ci era rimasta male. Oh, ben, questa! Chi ci andava a pensare!
Cesarina la domenica, dietro la finestra che si affacciava nella Piazza Grande, scostando appena un po’ la tendina ricamata, osservava le famiglie del paese, i Corti: marito e moglie e tre bambini goffi e con la testa grossa, i Rurale insieme alle due vecchie zie zitelle, piccole e magre, sempre vestite di grigio come due secondine, il gruppo compatto
e riverito della famiglia del sindaco, il geometra Maurelli Adelio, che con le palazzine condominiali aveva fatto dei bei soldi. La moglie Mariastella ogni domenica sfoggiava un vestito nuovo, che d’inverno lasciava intravedere dal cappotto lasciato appositamente aperto.
La domenica mattina alle undici proprio quasi sotto le sue finestre passavano tutti per andare a messa nella Parrocchia di Santa Maria della Neve, con i bambini e le nonne e i parenti al completo, poi si fermavano sul sagrato a chiacchierare e magari a progettare il programma per la giornata e infine andavano a gruppetti alla Pasticceria Dolci Sensazioni a comprare le paste. Un piacevole rito mondano: la Mercedes, con il suo grembiule di raso nero con colletto di pizzo e i polsini bianchi, che conosceva i gusti di ognuno, li serviva, gratificandoli con piccoli commenti appropriati e scherzosi. Dopo finalmente tutti a casa a tavola e la piazza si svuotava.
Poche ore più tardi nel pomeriggio, se la giornata non era piovosa, si animava di nuovo, gli abitanti a zonzo per la pigra passeggiata nel corso a sfoggiare il vestito buono e il rituale del caffè preso al bar. Gli uomini col colorito rubizzo e l’espressione un po’ beota di chi a pranzo aveva mangiato tanto e bevuto ancora di più, si scambiavano battute sporcaccione mentre le donne, con la pettinatura rigida da parrucchiere, stavano in disparte fingendo di scandalizzarsi, la mano davanti alla bocca e gli occhi spalancati.
Fino a sera quando toccava ai ragazzi a uscire. Gruppetti vocianti che si attardavano prima di andare in discoteca a Pavia.
Cesarina, tranne qualche volta per la messa, rimaneva chiusa in casa l’intero giorno, esclusa dalla vita del paese. Sempre sola a far passare le ore.
“Non che mi facciano una grande simpatia, ‘sti burini a festa. Il marito della Mocchetti con il suo abito marrone una taglia di troppo – che i pantaloni gli si arricciano alle caviglie come a un disgraziato – è un noioso morto in piedi e in casa dei Grandori mi hanno detto che si mangia poco e male, perché lei, la Mariuccia, è un cane che riesce a rovinare perfino una fetta di prosciutto. Magari, anche se me lo chiedessero, probabilmente rifiuterei, di andarci. Però almeno una volta mi potrebbero invitare! Se non altro per cortesia.”
Si sentiva un po’ umiliata da tanta mancanza di rispetto. E dall’essere lasciata in disparte così, come fosse stata un nessuno. Rifiutata dalle persone che nel suo Istituto invece la trattavano con confidenza cordiale.
Che spesso rimanevano oltre il tempo del massaggio, per farsi due chiacchiere tutte insieme, da una cabina all’altra.
E poi perché questa specie di quarantena? Avevano paura che, essendo sola, s’insinuasse nella loro famiglia e se la trovassero sempre tra i piedi a piatire un po’ di compagnia? Sì, proprio lei era il tipo!
Piccola di statura, con il corpo un po’ tozzo, ma bello sodo, le gambe corte e muscolose, i lineamenti forti da contadina, gli occhi birichini e ancora l’accento generoso della sua terra d’origine, la Cesarina la si poteva considerare una donna piacente.
Con la Panda che si era comprata alcuni anni prima, qualche volta, soprattutto d’estate, era andata da sola a ballare nelle balere dei paesi vicini, per non suscitare pettegolezzi. Ma nonostante il suo modo di fare alla mano e ingenuamente seduttivo, un marito non se lo era proprio trovato. Tanti corteggiatori, questo sì. Ma diverso era il suo scopo.
Anche se lei ormai con gli anni che passavano così in fretta, si sarebbe di molto accontentata.
Si trovò invece un amante fisso. Un camionista. Una pasta d’uomo che faceva avanti indietro ogni settimana la Monaco-Genova e che una sera si era fermato a Massaua a dormire, perché il suo camion aveva avuto un guasto. Veniva dalla Baviera, dove viveva in una cittadina vicino a Norimberga – glielo aveva raccontato subito – con una moglie bionda e gigantesca come lui e un paio di ragazzini. Con la sua risata esplosiva e le sue grandi bevute di birra, che si era accumulata tutta sul ventre prominente e teso come un tamburo, alla Cesarina era piaciuto subito, seduto sull’alto sgabello del bar del Dancing Honolulu.
Eccome, se le era piaciuto! Tanto che il giovedì chiudeva il suo Istituto alle sette, “Vado a trovare una mia vecchia zia alla lontana”, diceva alle clienti pettegole e con la sua macchinetta andava all’Hotel Moderno sperduto nella campagna di Bereguardo. Portava con sé ogni volta ben avvolto nella carta d’argento per tenerlo al caldo o un bel tegame di pasta al forno o degli agnolotti conditi generosamente con burro fuso e salvia.
Perché nei dintorni, soprattutto nei giorni feriali, ristoranti e trattorie chiudevano presto.
A quell’ora le sue donnette clienti dell’Istituto andavano al Bar Moka a spararsi uno svogliato aperitivo con tre olive vizze, per sentirsi un po’ come le protagoniste di Sex and the city, pensava, ironica, deponendo sul comò della stanza tutte le buone cose che aveva portato e che riempivano l’aria di un profumo succulento.
Mentre lui, l’Herman, appena entrato nella camera, senza perdere tempo in tante smancerie, la prendeva subito, così, quasi senza spogliarla. Solo un bel pezzo dopo, finalmente appagati, pensavano a svuotare il cesto con tutto il suo ben di dio. Non mancava mai la birra. Ma anche una bella bottiglia di frizzante Lambrusco.
Un giorno, buttando giù l’ultima forchettata di un’intera teglia di lasagne al forno che aveva divorato, come fosse stata l’ultimo pasto di un condannato a morte, Hermann cupo in faccia avvisò Cesarina che con il suo camion non avrebbe percorso più quella tratta. La sua ditta lo destinava al nord dell’Europa, Norvegia, Danimarca o giù di lì. Glielo disse, e poi in lacrime e anche un po’ubriaco, per l’ultima volta l’abbracciò stretta quasi da stritolarla.
Per Cesarina incominciò una solitudine che ora le rodeva dentro più di prima, perché non era condita neanche con l’attesa esaltante dei suoi eccitanti, clandestini giovedì.
Una sera che svogliatamente stava sfogliando un giornale, la sua attenzione fu attirata da un’offerta pubblicitaria. Lesse attentamente un paio di volte e il suo viso prese subito colore, la sua mente incominciò a lavorare. Era un’idea azzardata, ma tutto, nella sua vita, non era stato semplice. Eppure guarda dove era arrivata!
L’ordinazione la fece in grande segretezza, addirittura andando direttamente a Pavia un lunedì mattina presto. Si fece mandare il pacco anonimo al Fermo Posta, dove tra mille peripezie e un bel po’ di batticuore, andò a ritirarlo un venerdì sera. Parcheggiò poi la Panda in una stradina isolata vicino a casa.
Nottetempo, pregando la madonnina santa che nessuno la scorgesse, con molta fatica portò a casa il suo tesoro: la bambola “Payme Patty”.
Ordinata per posta dal catalogo Shoppingsex.
La tolse circospetta dallo scatolone, senza etichette pubblicitarie, in cui era stata piegata e la gonfiò con cura con l’apposita pompa in dotazione.
Le ci volle quasi mezz’ora. A lavoro compiuto l’osservò con aria critica.
Anche se la Patty era la bambola più semplice e umana del catalogo nel quale l’aveva scelta, senza le tettone e il culone delle altre, era assolutamente necessario farle alcuni ritocchi.
Lei che tutta la settimana aveva studiato ogni sera con grande attenzione le foto, se l’era immaginato e aveva preparato in casa tutto il necessario.
Quella che richiese maggior impegno fu la bocca, per farla diventare normale, che a vederla così spalancata come quella di una morta strangolata, le faceva anche un po’ impressione.
Dopo un lavoro paziente e di grande abilità col silicone e le matite del trucco, con la biancheria che aveva comprato e un grazioso vestitino celeste a fiori, nonché una folta parrucca color mogano, la bambola gonfiabile Payme Patty, ormai irriconoscibile, era diventata Rosetta: la sua amata sorella.
Di lei parlò eccitata con tutte le clienti.
“Ieri sera tardi mia sorella è arrivata dal mio paese vicino a Modena per passare un po’ di tempo con me. Lì ormai non c’è rimasto quasi più nessuno della famiglia… La Rosetta non cammina molto bene, per un incidente di macchina alle gambe e quindi non esce… Scrive poesie. Al paese ha vinto perfino un concorso “Belle Parole per un anno”. Venti composizioni che hanno stampato in un vero libro rilegato. Hanno letto le sue poesie nella sala del Comune, davanti al Sindaco, alle Autorità e al Parroco. C’era un sacco di gente ad applaudirla, a farle le foto. L’hanno intervistata anche sulla Gazzetta locale.
Ci siamo sempre fatte molta compagnia, io e lei, e non smettiamo mai di ridere, perché la mia Rosetta è molto spiritosa, ha sempre qualcosa per la testa, non una di quelle persone che ti fa sbadigliare dalla noia solo a guardarla in faccia. Per questo ci piace starcene per conto nostro. Ci siamo sempre bastate. Poi so già che qualche sera verrà a trovarci la zia da Bereguardo e anche i cugini e gli amici. Che la rivedono volentieri.
Perché alla Rosetta vogliono tutti bene, con il carattere simpatico che ha.“
Si sparse subito la voce.
Le donne d’improvviso presero a invitarla al Bar Moka in piazza per prendere insieme un caffè prima di tornare a casa a preparare la cena alla loro noiosissima famiglia: volevano notizie, venire a trovarla, combinare una domenica insieme, desiderose di vedere in faccia la nuova arrivata che sembrava, dalle descrizioni, graziosa e simpatica. E anche un po’ speciale.
“Perbacco! Addirittura una poetessa! Una che ha scritto un libro col suo nome! Non cosucce da niente. Famosa. Messa addirittura sul giornale. Qui a Castel d’Isola non abbiamo mai avuto nulla del genere.”
Anzi la Mocchetti aveva subito affermato decisa: “Io e lei andremo immediatamente d’accordo. Perché io dentro sono sempre stata un po’ poetica.”
Poi una persona nuova, di compagnia: era un bel diversivo nella piccola comunità, imprigionata nelle sue abitudini in cui si sentiva spesso soffocare, che l’ultima volta che aveva visto dei volti nuovi era stato con l’arrivo, tanti anni prima, delle zie dei Rurale. Neanche tanto simpatiche, a dirla tutta, brutte, vecchie e un po’ sorde.
Ma adesso era la Cesarina che rifiutava. Voleva rincasare presto e già in strada, – confessava tutta allegra alle clienti – le si allargava il cuore a scorgere dietro le tendine del tinello la sagoma della Rosetta che passava la giornata a scrivere le sue bellissime poesie, che mandava al paese al Sindaco, per metterle in un altro libro, e poi a sera la aspettava.
Le piaceva preparare la tavola per due, chiacchierare, commentare i fatti della giornata, guardare insieme qualche programma alla Tv, mangiare un dolcetto prima di augurarsi la buona notte. Lo andava a scegliere anche lei alla Pasticceria Dolci Sensazioni.
”Ce lo gustiamo dopo cena, mentre guardiamo la televisione. E’ golosa, la mia Rosetta!”
Davanti a quel paese di gente chiusa, diffidente e ingrata, non era più la zitella da compatire come avevano fatto fino allora, con un pizzico di trionfante malignità:
“Povera Cesarina. Farà un sacco di soldi con il suo Istituto, ma la sera, sola come un cane!”, e da lasciare accuratamente in disparte, perché:
“Ragazze, se si è un po’ furbe, non s’invita a casa una donna libera e ancora sulla breccia. Che magari il marito può farsi venire il ghiribizzo.“
Una donna indipendente! Con il suo appartamento dove può invitare chi vuole, senza rendere conto a nessuno!
“Che si sa, l’uomo è cacciatore! E’ nella sua natura. E gli basta poco per non riuscire a frenare la fantasia. Anche al più onesto.”
Sorrisini. Sguardi maliziosi.
Le aveva indovinate, Cesarina, le chiacchiere di quelle bigottone invidiose e malfidenti!
Adesso, guarda, proprio quella ficcanaso della Mocchetti, la più sfacciata di tutte, una sera quasi all’ora di cena le si era presentata a sorpresa a casa con la scusa di farle controllare uno sfogo che le era improvvisamente apparso sulla faccia. Uno sfogo! Una microscopica macchiolina sulla fronte.
“Sarà mica stata la crema che mi hai messo oggi per il massaggio?” le aveva domandato come scusa e intanto in anticamera allungava il collo come un’oca, pronta a entrare di slancio. Cesarina, ferma ma gentile, l’aveva spinta con forza sul pianerottolo.
“Scusa se non ti faccio venire dentro, ma la mia Rosetta ha un po’ d’influenza e si è appena appisolata sulla poltrona in tinello. Non voglio disturbarla, che già stanotte ha dormito poco per la tosse,” la congedò sussurrando. “Ci vediamo domani all’Istituto. Non perdiamo tempo adesso, che anche tu avrai la tua famiglia da mettere a tavola! Ed io non
vorrei che mi si bruciasse la cena sul fuoco”.
Dal piccolo appartamento usciva un casalingo, appetitoso profumo di spezzatino. Anche lì, come in tutte le case del paese, la cena era quasi pronta.
Quante sghignazzate si era fatta poi con la Rosetta dopo il batticuore di quella visita improvvisa e quando l’aveva imitata, facendo la bocca stretta a culo di gallina, come faceva la Mocchetti, che diventava tutta pettoruta nei momenti in cui si sentiva furba.
“Sì, uno sfogo! Pensa tu, che trovata! Una macchiolina piccolissima che probabilmente si é fatta con la biro. Una scusa per venire a ficcanasare e per vederti da vicino, la scema!”
Si sentiva ridere fino in strada.
O come la volta che era arrivato addirittura l’Adelio Maurelli, il marito della Mariastella. Aveva un po’ bevuto, lo si percepiva dall’alito greve a metri di distanza. Di soppiatto una sera, dopo il lavoro, era entrato silenziosamente dietro di lei nel portoncino e l’aveva seguita sul pianerottolo buio, brancicandola malamente con le mani dovunque e sbavandole ansimante sul viso.
Grugniva: “Dai, che so che ti piace. Una donna sola come te… chissà che fame che hai di maschio… che senti qui cosa c’è, dentro i pantaloni…” Il suo faccione solitamente squadrato e pallido e con una certa espressione astuta, si era tramutato in quello di un omarino cattivo e prepotente. Va beh, che aveva la madre che non moriva mai, affetta di Parkinson. E che il suo nuovo affare edilizio puzzava di galera. Ma questo non lo giustificava dal metterle le sue manacce sotto la gonna.
Arrabbiata lo aveva allontanato facilmente, perché era forte, la Cesarina.
“Aho! Sei via di testa? Cosa ti passa in quel cervellino da gallina? Lasciami stare e vattene. Che poi la Rosetta s’incazza ed è buona di mettersi a strillare così forte che arrivano i pompieri anche dalle frazioni vicine! Capace che fa scrivere il fattaccio anche sul giornale del nostro paese!”
Perché ora pure lei aveva una famiglia, non era più una povera donna qualunque che passava le sue serate e le feste sola, compatita da tutti, aveva una sorella perfino importante, che le faceva da scudo protettivo da tutte le cattiverie.
E va all’inferno! a quei villani mugugnosi che solo adesso, che non ne aveva più bisogno, si stavano accorgendo di lei!
Quasi dieci anni erano scivolati via in compagnia di Rosetta quando, inaspettata come un fulmine, arrivò dalla Baviera una lettera:
“Cara Zesarina, io in pensione e finito lavoro. Mia frau morta e ragazzi partiti. Non te mai dimenticato. E pensato sempre con grandissimo amore e nostalgia. Io arriva in tre giorni. Se vuoi sposo te e viviamo sempre insieme. Aspetto tua risposta che spero ja. Tuo caro Hermann.”
Seguiva il numero di telefono.
“Mariavergine,” sussurrò Cesarina mentre credeva che le venisse un colpo, per la gioia. Aveva aperto la lettera nella pausa tra un massaggio e l’altro. Senza dire una parola alle clienti, che non ne sarebbe stata neanche in grado tanto aveva la gola chiusa, abbandonò il suo Istituto e corse a casa dalla Rosetta:
“Chi se lo aspettava più. Dio mio, senti come mi batte il cuore. Il mio gigante biondo! Ritorna da me. Non mi ha mai dimenticato!” Abbracciò la sorella, le stampò due baci di felicità sulle guance e ritornò di corsa al lavoro.
Sprizzava splendore. A chi le chiese se era successo qualcosa, fece la misteriosa: “Vedrete, donne, che bella sorpresa vi prepara la vostra Cesarina, una sorpresa che proprio non ve l’aspettate. Una sorpresa da far resuscitare tutti i morti, qui a Castel d’Isola!”
Solo verso sera le venne in mente: “Dio mio, e la Rosetta? Non posso farla trovare in casa dall’Hermann. Come faccio?”
A cena piangendo Cesarina illustrò alla sorella il suo piano. Pure la Rosetta era triste, ma le faceva anche coraggio: “Non pensare a me. Adesso importante è l’Hermann. Io sarò sempre nel tuo cuore e tu nel mio. Qualsiasi decisione dobbiamo prendere, noi saremo sorelle per tutta la vita.“
Il giorno dopo a notte fonda Cesarina, che aveva parcheggiato la macchina davanti casa, scese a fatica le scale del palazzetto in cui abitava, con Rosetta tra le braccia. La teneva diritta davanti a sé, che sembrava che camminasse. Le aveva lasciato addosso il vestito, la biancheria, la folta parrucca.
Non aveva avuto cuore di spogliarla e di piegarla per metterla nella scatola. E neanche Rosetta aveva voluto.
Con la sorella seduta sul sedile accanto e il cuore pesante, aveva guidato la sua Panda fino a raggiungere un ponte sul Ticino, un posto un po’ solitario che aveva scoperto con l’Hermann, nell’unico intero week end che avevano passato insieme.
Con circospezione e gentilezza fece scivolare Rosetta fuori dalla macchina. Le avvolse il corpo fino alle spalle in un lenzuolo, una specie di sacco e sul fondo mise delle pesanti pietre.
Dopo un ultimo bacio, piangendo, la lasciò andare nella corrente. Poi, al chiaro della luna appesa nel cielo come un fanale, stette a guardarla mentre si allontanava.
Rosetta si girò verso di lei lentamente, con la mano alzata, a salutarla.
Per l’ultima volta.
Cesarina, che quasi non ci vedeva per le lacrime che aveva negli occhi, fece ritorno a casa. Che le sembrò, per la prima volta dopo tanti anni, vuota e abbandonata.
Per fortuna tra qualche giorno arrivava il suo Hermann.
Avevano già preparato le carte.
Si sarebbero sposati il sabato successivo, a Bereguardo, loro due soli con due testimoni, dei suoi colleghi che, come lui un tempo, facevano la tratta Monaco-Genova.
Non avrebbe invitato nessuna delle donnette del paese, che non l’avevano mai voluta come amica e l’avevano sempre snobbata. Lei, una donna sola, da tener lontano per paura e interesse.
Avrebbe fatto loro una bella sorpresa. Se le immaginava già le facce livide di quelle sceme a presentargli la domenica mattina, davanti al sagrato della chiesa il marito, grande, bello, biondo, allegro e soprattutto che sprizzava entusiasmo e mascolinità da tutti i pori. Autentico.
“Sì, sono sua moglie” avrebbe detto facendo vedere la fede che luccicava al dito. “Sono la signora Mayer. Cesarina Mayer! Come ci siamo conosciuti? Oh, é una lunga storia terribilmente romantica, da cuore e batticuore, tipo telenovela, che in questo momento non abbiamo tempo di raccontare. Dobbiamo correre a Pavia. Ci sono gli amici dell’Hermann che ci aspettano per festeggiarci!”
A lui, un giorno, avrebbe raccontato della sua amata sorella e di quanta compagnia le aveva fatto in tutti quegli anni.
“Abbiamo lo stesso carattere e andiamo sempre d’accordo. Ha più o meno la mia età e i capelli color mogano. Però è più alta di me. Ha preso dal povero babbo, che era anche lui un gran pezzo d’uomo. Ora è ritornata al paese. Un giorno andremo a trovarla.”
E la Rosetta, senza la sua adorata Cesarina?
Beh, due giorni dopo la prese all’amo un pescatore solitario.
Anche lui ebbe modo di apprezzarne il buon carattere e l’affettuosa compagnia.